A volte abbiamo una percezione improvvisa del cambiamento: un giorno dalle gite scolastiche sono sparite le chitarre, è finita l’annosa disputa tra quelli che in pullman cantavano La canzone del sole e i patiti di Alba chiara: era nata l’era del walkman e delle cuffie. Altre volte i cambiamenti li sentiamo lenti e progressivi. È il caso del far scuola. Da tempo abbiamo la percezione che qualcosa si stia sfaldando. In sala insegnanti, per spiegare questo fenomeno, si fa uso e abuso di alcuni evergreen di sicuro successo:  questi ragazzi non hanno le basi/ non seguono/sono sempre più superficiali/immaturi/fragili, le famiglie li coprono sempre, e così via fino al conclusivo: ogni anno riesco a fare sempre meno. In alternativa, si nega: è sempre stato così… Intanto fuori dalle sacre mura, sulle pagine dei giornali, a scadenze stagionali, arrivano puntuali i dati sul disastro della scuola in generale e sull’ignoranza crescente degli studenti in particolare e si distribuiscono colpe e responsabilità: il sindacato, le mancate riforme, i ministri, il sistema di reclutamento degli insegnanti e così via. Poi si riparte. La campanella suona e tutti si torna in classe. Tutti a sentire che qualcosa non va, che stiamo girando a vuoto.



Una cosa è certa: quel patrimonio di cultura che abbiamo ricevuto, studiato, perfino amato, lo comunichiamo e spesso ci mettiamo anche della passione. Come mai allora una larga (sempre più larga) fetta di studenti sembra aver dissipato tanto rapidamente quel che ha ricevuto in anni e anni di scuola? Perché sembra che non si arrivi a un vero “apprendimento” nel senso etimologico del termine, cioè quel processo per cui quel che abbiamo studiato entra a far parte di noi, sangue del nostro sangue e carne della nostra carne? Sembra quasi che quel che viene dalla scuola venga gettato dopo l’uso, sputato dopo l’interrogazione o il compito in classe, in modo che non intacchi l’organismo. Risultato? Ragazzi impermeabili alla cultura, almeno a quella che viene passata dalla scuola. E qui i negazionisti si agitano: non è vero, non sono mica tutti così. Constatazione sempre vera in ogni tempo e ad ogni latitudine. Ma gli studenti interessati e motivati, quelli che raggiungono un apprendimento interiorizzato, uno stile cognitivo efficace, insomma le cosiddette “eccellenze”, non sono sicura che debbano a noi tutto questo; è molto probabile che sarebbero bravi comunque. Non credo nemmeno che per indurre le persone a imparare, sia decisivo il ricorso a motivazioni “esterne”, cioè i premi e le punizioni, le coercizioni e le minacce (il cinque in condotta, il sei in tutte le discipline per essere ammessi all’esame di stato): il problema ha ben altre radici e va affrontato nella sua complessità.



 

Certo la scuola in questo momento si trova in una posizione di forte svantaggio: innanzitutto perché offre cultura, che non sta in cima alle hit del mondo adulto, figuriamoci di un adolescente. Mai e poi mai, per fare un esempio fra i tanti possibili, negli spot pubblicitari si vede qualcuno che legge e nel senso comune dei ragazzi la lettura e lo studio sono attività buone per chi non riscuote successo sociale (loro direbbero per gli sfigati); inoltre il titolo di studio non è garanzia per il futuro lavorativo, l’istruzione non è più una forma di riscatto sociale. In secondo luogo la scuola trasmette un sapere depositato nei libri, quindi richiede al discente il duplice sforzo di interpretare i simboli linguistici e di ricostruire il testo riformulandolo in un altro testo, magari solo mentale, da padroneggiare. Lavoro faticoso, che richiede concentrazione e tempo. I nostri ragazzi sul tavolo di lavoro accanto al libro di testo hanno il cellulare e molto spesso il computer, studiano e intanto tengono aperti i canali col mondo circostante, comunicano continuamente tra loro con una rapidità vertiginosa. Sono abituati a fare più cose nello stesso tempo perché chattano e ascoltano la musica, mandano un SMS e giocano alla Play, aggiornano il profilo su Facebook e cercano un volo low cost per il Capodanno a Barcellona. Non dimentichiamo che hanno imparato ad usare il cellulare, il computer e i videogiochi sicuramente senza l’ausilio del manuale delle istruzioni, ma procedendo per tentativi ed errori, con una modalità percettivo-motoria infinitamente più rapida nel ritmo e meno stancante dello studio sul libro. Il mattino dopo, a scuola, si entra in una dimensione senza tempo – la stessa dei genitori e dei nonni – di corridoi silenziosi, di cattedra, banchi e lavagne, di saperi lontani di cui poco si comprende il senso.



 

Se la scuola passa troppo lontano, se non si fa prossima a loro, noi questi ragazzi non li incontreremo e quello che offriamo non potrà mettere radici né essere utile per la vita. Ormai è urgente porsi il problema di una vera e propria “traduzione” del sapere che propone la scuola, cioè di una mediazione forte tra quel che andiamo insegnando e questa generazione che non è migliore o peggiore delle altre, semplicemente è quello che è. Partiamo da loro: con il contributo delle scienze umane e le acquisizioni delle neuroscienze possiamo provare ad esplorare un po’ più in profondità il sistema con cui i ragazzi elaborano le conoscenze, le strutture archetipiche del loro immaginario; lavorare in questo modo, per orbite un po’ più larghe, contribuirebbe anche a far uscire la scuola dalla sua asfittica autoreferenzialità. Alla politica il compito di fissare gli obiettivi finali, i profili in uscita secondo i vari ordini di scuola, le indicazioni su cosa valga davvero la pena consegnare del patrimonio che abbiamo ricevuto e cosa, con dispiacere, dobbiamo lasciare. A noi il compito di riflettere sui processi della conoscenza, sui linguaggi e sui metodi. Certo per questa impresa non basteranno i soliti appelli alla buona volontà.