Le pagine del Sussidiario raccolgono sempre più frequentemente il grido di dolore, che si leva dal cuore e dall’intelligenza dei migliori insegnanti motivati e preparati che denunciano la fatica, l’impotenza o, forse, l’impossibilità di educare le giovani generazioni che hanno di fronte. E che tuttavia rifiutano di arrendersi e cercano con altri le vie d’uscita. “Emergenza educativa” è il punto di raccolta di analisi, lamenti, proposte, tentativi volenterosi, successi e insuccessi. Intanto è cresciuta la letteratura sull’emergenza educativa, nel tentativo incessante di identificare la cause profonde e perciò eventualmente i rimedi. Le esperienze sul campo di contrasto dell’emergenza educativa e la riflessione individuale e collettiva, quale quella promossa, per esempio, dal Manifesto che la Compagnia delle Opere ha dedicato alla scuola e all’educazione, Una scuola che parla al futuro, hanno fatto crescere l’intelligenza del fenomeno. Quali sono i punti fin qui acquisiti?
Primo: l’emergenza educativa è il sottoprodotto della transizione di civiltà in corso. Transizione alla terza rivoluzione industriale, nel contesto dei tre choc della rivoluzione bio-tecnologica, dell’informatica, della globalizzazione. Filosofi e sociologi usano molti vocaboli per segnare il fenomeno: modernità, post-modernità, società liquida, modernizzazione riflessiva ecc… Quel che è evidente è che sarà un fenomeno di lunga durata. L’emergenza educativa non è un transitorio incidente di percorso. Sarà la faccenda di questa generazione di adulti e almeno della prossima, finché il fall out dei mutamenti non sia depositato.
Secondo: l’incertezza radicale circa il futuro e i destini individuali, l’esperienza di una contingenza assoluta e di un’infinita finitudine oltre confini nazionali e statali, oltre l’ethos ereditato, oltre le relazioni affettive e familiari producono un’autocoscienza dei soggetti, un’“autoriflessione” che radicalizza l’imprevedibilità e la contingenza della presenza del singolo di fronte alla realtà e nella storia e finisce per elevarla a destino necessario. Perciò l’educazione, il passaggio del testimone da una generazione all’altra, diviene impossibile. Come ha scritto il sociologo Pier Paolo Donati, in una relazione tenuta all’Agesc – l’Associazione dei genitori delle scuole cattoliche – nell’ottobre del 2009: «… la questione dell’emergenza educativa non consiste nel fatto che ci troviamo di fronte ad una società che vorrebbe educare, ma fallisce.
La questione è assai più grave e radicale: l’emergenza educativa sta nel fatto che l’impossibilità di educare è pensata come una condizione normale della società in cui viviamo». E se educare è impossibile, che senso e legittimazione hanno più famiglia, scuola e ogni altra agenzia educativa? Se hanno un senso, è profondamente cambiato rispetto a quello fin qui tradizionalmente pensato e in parte residualmente praticato: devono solo somministrare dosi massicce di pluralismo, tolleranza, socializzazione leggera. Educare è impossibile, dunque è un inutile lavoro di Sisifo quello dei genitori e degli insegnanti, che con fatica spingono verso la cima della montagna il masso destinato ogni giorno a rotolare a valle.
Terzo: il modello educativo costruito fin dal XVI secolo e durato fino agli anni ’70 del XX secolo ha rincorso le successive rivoluzioni industriali, fino a toccare i fili ad alta tensione della post-modernità del XXI secolo, basandosi sul centralismo statale, sull’enciclopedismo, sull’egualitarismo di cittadinanza, su un’antropologia della cittadinanza ormai consunta, dentro un recinto istituzionale, organizzativo e pedagogico-didattico sempre più autoreferenziale. Il modello statalistico ha messo fuori gioco i soggetti e i motori dell’educazione. L’incapacità di cambiare il modello per costruire le condizioni di un rinnovato rapporto con la realtà costituisce una causa ulteriore di aggravamento dell’emergenza educativa.
Quarto: non si esce dall’emergenza educativa – che sta mettendo a rischio la continuazione della civiltà europea così come la conosciamo – senza cambiare l’antropologia di fondo – dal cittadino alla persona – e non si esce da soli.
Né la famiglia né la scuola né le imprese né qualsiasi altra agenzia possono pensare di fare da soli il percorso verso una nuova educabilità, se non si connettono tra di loro per ricostruire il contesto sociale e relazionale, dentro cui le azioni e i progetti delle persone acquistano senso e consistenza. Non ci sono soluzioni immediate: costruire il tessuto relazionale sociale e pubblico appare la prima condizione. Per farlo occorre non solo un’antropologia della “persona in relazione”, ma anche un’idea e una pratica della società, che non affidi allo stato la fondazione della dimensione pubblica e riduca i soggetti famiglia, insegnanti, scuola, impresa nello spazio privato o lobbistico. Pubblica è la società civile, pubblici i soggetti che la abitano, pubbliche le associazioni e società intermedie. Lo stato non è il titolare originario della socialità, della relazionalità, della educabilità. E con ciò è evidente che l’impresa di riformare il sistema educativo richiede una rivoluzione culturale. Senza questa si può solo mettere qualche pezza amministrativa. Il Manifesto della Compagnia delle Opere sta già contribuendo al cambiamento culturale quale fondamento della riforma istituzionale, amministrativa, organizzativa del sistema educativo.