È stato presentato nei giorni scorsi, con un corredo non indifferente di riprese su giornali e tv, il rapporto sulla scuola di Italia Futura, l’associazione patrocinata da Luca Cordero di Montezemolo. La ricerca focalizza l’attenzione sull’istituzione scolastica dall’angolo visuale dei maestri elementari, dei quali viene tanto tessuta la lode, quanto denunciata la scomparsa come categoria culturale e professionale. Si legge, infatti, nel testo diffuso on line che «il maestro è, nel discorso oggi dominante sulla scuola, una figura diminuita, appartiene ad un altro secolo, alla scuola che si dice tradizionale e per ciò stesso delegittimata, in attesa che sorga il nuovo professionista dell’educazione». L’apparente successo dell’iniziativa, che forse insiste un po’ troppo sulle disgrazie della scuola italiana senza intravederne gli aspetti positivi che pur ci sono, nasconde in realtà qualche limite concettuale.
Anzitutto la ricerca non dice cose granché nuove, se non nelle proposte conclusive: istituzione di biblioteche per maestri e incentivazione di progetti di edilizia per le scuole più confacenti alla natura dell’atto educativo che vi si svolge.
La rilevazione degli apprendimenti 2008/2009 nella scuola primaria, curata dall’Invalsi, riguardante Italiano e Matematica dei ragazzi nelle classi seconde e quinte, metteva in luce qualcosa di ancor più preoccupante del deficit di apprendimento dei saperi di base, e cioè la differenza nella variabilità dei punteggi all’interno delle diverse aree.
Questo significa, secondo l’Invalsi, che «gli esiti sono molto più dispersi al Sud che nelle altre regioni. Inoltre questa differenza di variabilità è da imputare prevalentemente alla componente tra scuole nelle regioni meridionali, considerevolmente maggiore rispetto al resto del Paese. In Italiano nella classe seconda la quota della varianza tra scuole sul totale è molto bassa nel Nord e nel Centro (4,7 e 8,9 per cento rispettivamente) e pari al 17,5 per cento nel Sud. Queste differenze si amplificano per la matematica e nella classe quinta» (dalla Sintesi del rapporto 2008/2009).
La varianza indica appunto una variabilità interna ai gruppi di scuole considerate: una notevole diversità, come in questo caso, significa che lo stesso “sistema dell’istruzione” produce risultati disomogenei tra soggetti dello stesso territorio.
La situazione implica, dunque, che si ragioni non più nei termini di un centro che controlla la periferia, bensì in quelli di un sistema di scuole che si organizza in modo che le punte di eccellenza esistenti influiscano sulle più modeste (quanto a risultati) che si collegano per imparare.
Risiede in questa pratica del mettersi in rete, per paragonarsi e per migliorare la proposta culturale e formativa, il senso proprio dell’autonomia degli istituti scolastici che il rapporto di Italia Futura demonizza invece come fonte dell’abbassamento della qualità delle conoscenze («Prendete l’esempio dell’autonomia: la sua evocazione allude ad una condizione della scuola che si fa capace di rispondere in maniera finalmente adeguata ai diversi bisogni formativi degli alunni, alle richieste delle loro famiglie, alle specificità locali. Ma come tutto questo si realizzi non ci è dato di sapere»).
Il problema è semmai di uscire da una concezione statica e individualistica dell’autonomia per approdare ad una dinamica di rapporto virtuoso ed efficace tra scuole (e tra insegnanti), a vantaggio di tutto l’insieme.
E la sfida del confronto e del paragone non riguarda solo le scuole di uno stesso territorio, ma ugualmente gli stessi insegnanti (in questo caso i maestri), la cui professionalità è strettamente legata ad una vocazione comunicativa che non si può vivere da soli. Il docente è chiamato ad insegnare e a verificare se e come ciò che è stato trasmesso è stato accolto. La cultura è una coltivazione avente in sé la necessità di assumere la realtà alla luce di un criterio, di un significato comprensivo di tutto il reale. Un simile sguardo si apprende nell’incontro con altri, in una libertà di relazione e di azione, per cui il maestro è educatore, cioè tramite di cultura, se a sua volta si educa e si mette in rapporto.
Tutto ciò non lo si ritrova certo tra le teorie pedagogiche che hanno sostituito spesso il buon senso (su questo il rapporto dell’associazione di Montezemolo dice il giusto), ma nemmeno nei programmi scolastici vecchia maniera (quelli che le Indicazioni nazionali hanno abolito) che non salvano (non hanno salvato) da un certo degrado culturale.
Tra l’altro, tanto per sollevarci un po’ lo spirito, i programmi didattici per la scuola elementare del 1985 (criticati perché matrice del modulo didattico da tre maestri su due classi) si denominavano “programmi” pur essendo articolati in “obiettivi, contenuti e indicazioni didattiche”. Le successive Indicazioni Nazionali del 2004 risultanti dalla riforma Moratti, pur non essendo programmi, erano articolate in “obiettivi e contenuti” (anche molto espliciti ed essenziali).
Temiamo che la differenza stia non nella cosa in sé, bensì nel soggetto che la usa (i programmi come obiettivi; gli obiettivi come finalità conoscitive). A questo proposito i ricercatori di Italia Futura affermano una verità sacrosanta: «il problema più importante per la formazione di un buon maestro è la sua cultura». Essa tuttavia, chiosiamo e insistiamo, si forma certo sui libri e in un percorso di formazione iniziale più centrato sulle conoscenze fondamentali, ma soprattutto se la persona del maestro, o dell’insegnante in genere, è presente a se stessa quando apprende e poi quando insegna. Cioè a recepire come utile per sé, per la propria crescita umana e professionale, il senso della tradizione culturale nella quale è immerso e che è chiamato a vivere come presente.
La scuola ha bisogno di uomini di cultura, non di cultura disumanizzata.
Un altro documento sulla scuola, pubblicato la scorsa estate e ancora attuale (Una scuola che parla al futuro), promosso dalla Compagnia delle Opere e che proficuamente potrebbe essere messo a confronto con quello di cui sopra, a ragion veduta sosteneva a proposito del docente che: «L’insegnante deve essere libero di proporre la propria ipotesi educativa e di praticarla nella concreta attività di insegnamento, nel rispetto degli alunni e del mandato educativo delle famiglie».
La libertà di educare, ovvero di proporre una cultura che dispone il soggetto al lavoro di comprensione della realtà (attraverso le discipline), non può essere scambiata per una cattiva autonomia e perciò discriminata. Qui sta il nodo nel quale spesso si incagliano le analisi. Occorre scioglierlo, non tagliarlo.