Attualmente, a partire dai 16 anni, esistono tre tipi di apprendistato. Il primo è quello formativo. Riguarda l’esercizio del diritto dovere di istruzione e di formazione di tutti i ragazzi fino a 18 anni. I suoi vincoli di svolgimento e i suoi risultati formativi dovrebbero essere stabiliti e controllati dal ministero dell’istruzione. Il secondo tipo è l’apprendistato professionalizzante. Riguarda i giovani dai 19 ai 29 anni assunti in un lavoro che, causa anche la scuola frequentata, non sanno svolgere bene e che dovrebbero, perciò, essere messi nelle condizioni di imparare a svolgerlo in termini di qualità. Coinvolge soltanto il ministero del lavoro. Il terzo tipo è quello di alta formazione. Riguarda i giovani laureati specialistici che, in accordo con l’azienda, si specializzano in percorsi formativi di dottorato universitario per incrementare le proprie competenze superiori. Chiama in causa sia il ministero dell’università sia quello del lavoro.
Il primo, però, interessa percentuali da prefisso telefonico, per di più con due zeri prima della virgola in molte parti d’Italia. Ed è di solito considerato una sconfitta personale e sociale. I giovani ritenuti «meritevoli» dai mass media e dalla mentalità comune frequenterebbero infatti in prima istanza i licei, e poi a seguire, in una consolidata scala progressivamente discendente, gli istituti tecnici, gli istituti professionali e i corsi triennali di istruzione e formazione professionale delle regioni. Il secondo tipo di apprendistato fa la parte del leone anche perché le aziende possono godere di vantaggi fiscali e contributivi. Il terzo è non solo poco praticato, ma anche quasi sconosciuto. E l’accademia nazionale si guarda bene dal valorizzarlo, sebbene nel recente documento programmatico Italia 2020 dei ministri Sacconi e Gelmini sia additato come la risorsa formativa più strategica per la nostra competitività internazionale.
In una Repubblica che, articolo 1 della Costituzione, dovrebbe «essere fondata sul lavoro». In una civiltà il cui il libro fondativo, la Bibbia, si apre con un Dio che lavora e che, alla fine, si compiace di aver «fatto bene». In una storia, come la nostra, scandita dall’equiparazione tra preghiera e lavoro (san Benedetto); da un san Tommaso, da un Kant e da un don Bosco che qualificano le mani come «l’organo degli organi» dell’uomo; dalle straordinarie esperienze di unità tra teoria e pratica condotte nelle botteghe medievali e rinascimentali; dagli operai dell’Arsenale veneziano dai quali Galileo dichiara di aver imparato molto più che dai suoi sussiegosi colleghi dell’università di Padova; dall’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert che aveva solo tre volumi teorici, ma ben venti dedicati ai mestieri e al lavoro, su su fino agli sconosciuti ma decisivi lavoratori che hanno perfezionato incrementalmente le tecniche di produzione che hanno autorizzato la prima, la seconda e le terza rivoluzione industriale, la circostanza di questa incredibile sottovalutazione del possibile ruolo formativo dell’apprendistato dovrebbe parecchio impensierire. E dovrebbe impensierire per due ragioni. Anzitutto perché già oggi, dati Excelsior alla mano, non si trovano muratori, brasatori, montatori meccanici di precisione, idraulici ecc. (l’elenco è lunghissimo) non che «lavorino bene», come si deve, con intelligenza, cultura, orgoglio e responsabilità, «coordinandosi altrettanto bene» con gli altri professionisti, altri che oggi parlano sempre più sia in italiano sia in lingua straniera, ma anche che semplicemente «lavorino». In secondo luogo perché se un personaggio come Emmanuel Mounier sosteneva che «lavorare è fare uomini» significa che oggi stiamo «facendo troppo pochi uomini».
In questo contesto, potevano apparire il segno di una significativa inversione di tendenza due elementi. Il primo è l’emendamento approvato alla Camera in Commissione lavoro che autorizza l’inizio dell’apprendistato formativo non più dai 16 anni soltanto (come disposto dalla finanziaria del 2007), ma dai 15, come è sempre stato e come è in tutti i paesi avanzati. Il secondo è la raccomandazione al ministro Gelmini, espressa sempre alla Camera dalla Commissione istruzione e cultura in sede di approvazione dei decreti sulla riforma scolastica, circa l’opportunità di valorizzazione i «crediti acquisiti dagli studenti» in apprendistato al fine di trasformare sempre più questo istituto formativo in un percorso valido a tutti gli effetti per l’acquisizione di qualifiche, diplomi e diplomi superiori. Invece, niente.
Le reazioni del solito mainstream politico-sindacal-culturale gridano allo scandalo perché non «si vuole mandare» tutti i ragazzi obbligatoriamente alla scuola che abbiamo fino a 16 anni. Questo scandalo si potrebbe giustificare se il provvedimento che impediva l’apprendistato dai 15 ai 16 anni, approvato tre anni fa, avesse contribuito a diminuire il più alto tasso di dispersione scolastica che possiamo vantare nell’Europa a 27 per cento. Di più: se avesse anche solo contribuito ad abbassare il numeri dei disadattatati ai metodi di apprendimento scolastici. Niente. Anzi, oltre che aver reso inservibile l’apprendistato in diritto dovere, ha contribuito a peggiorare l’uno e l’altro indice. Cosicché ci troviamo con il 20% di espulsi dalla scuola a 16 anni e con l’80% di ragazzi che, alla stessa età, hanno almeno due insufficienze gravi e considerano, per loro, la scuola tutt’altro che la scholé che dovrebbe essere. E con «questa» scuola non si chiede a gran voce di provare a rendere più efficace sul piano formativo la possibile strada alternativa dell’apprendistato? Non si esige che il ministero dell’istruzione detti al più presto i livelli essenziali di prestazione che le aziende devono assicurare per rendere il lavoro un’altra via per l’apprendimento e la maturazione complessiva della personalità degli studenti dai 15 ai 18 anni? Non si chiede allo stesso ministero di chiarire subito come intende verificare i risultati di apprendimento non scolastici, ma comunque educativi dell’apprendistato? È davvero paradossale. E solo da noi poteva accadere una cosa del genere.