Lo scorso 20 gennaio è stato approvato un emendamento alla Finanziaria per permettere ai ragazzi italiani di assolvere l’obbligo scolastico in percorsi di apprendistato. Prima di dire cosa a mio avviso non va in questa norma, credo sia opportuno fare un po’ di chiarezza, visto che – complici i commenti a caldo – la stampa ha subito sintetizzato “ridotto di un anno l’obbligo scolastico” e la discussione si è trasformata, con poche eccezioni (penso a Irene Tinagli su “La Stampa” del 22 gennaio scorso), in una “conferenza colta” sull’obbligo scolastico genericamente inteso. L’obbligo scolastico è stato elevato a 16 anni dall’ultimo governo Prodi. Ma prima l’obbligo non era a 14, come molti pensano, bensì a 15 anni; si poteva smettere a 14 solo se in possesso del titolo di Terza Media. E siccome Sacconi e Gelmini giustificano l’intervento, dicendo che si rivolge a chi resta parcheggiato fino a 16 anni, ovvero a ragazzi a rischio pluribocciatura e quindi drop-out, parliamo per lo più di ragazzi che prima dell’elevamento dell’obbligo stavano a scuola fino a 15 anni, prendevano la licenza solo perché veniva data loro per non lasciarli uscire “senza nulla in tasca” e poi andavano a lavorare.



Nel discutere del provvedimento, dunque, non dobbiamo ragionare in generale, ma pensando a questi ragazzi “a rischio”. Affermazione meno ovvia di quanto possa sembrare, però, visto che siamo il Paese dove quando le classi dirigenti e l’opinione pubblica che si parla addosso dalle colonne dei giornali discutono di scuola, a parole si riferiscono alla scuola genericamente intesa, ma pensano sempre alla scuola che hanno fatto loro: il liceo classico; quando va bene – e incontriamo qualcuno con un minimo di capacità di astrazione – si arriva a ragionare di Liceo in senso lato.



Ricordo ai più distratti che, proprio per questo motivo, unito ad un pregiudizio ideologico e/o culturale, all’epoca del varo della norma del governo Prodi, il Ministro Fioroni ha avuto molta difficoltà a definire dove si potesse espletare l’obbligo a 16 anni. La sinistra estrema della coalizione pretendeva che si dovesse stare comunque all’interno di un percorso di istruzione, precludendo alle regioni di attivare percorsi biennali all’interno della formazione professionale.

 

Il biennio doveva essere “di scuola” e se – come abbiamo detto – la scuola è il liceo classico, vi lascio immaginare cosa possano pensare dell’istruzione tecnica o, peggio mi sento, della formazione professionale, che preveda l’attivazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro. E così (eterogenesi dei fini?) abbiamo nei fatti mandato a farsi benedire il biennio unitario (qualcuno addirittura pretendeva fosse unico, allungando così nei fatti la secondaria inferiore ad un quinquennio), facendo dell’elevamento dell’obbligo una riforma a metà. Ecco perché oggi Confindustria applaude al provvedimento: le abbiamo spiegato – noi di sinistra – che l’alternativa è mandare i ragazzi a scuola fino a 16 anni, anzi fino a 17, visto che il percorso che dà la qualifica è triennale.



Come si evince da quanto ho scritto, condivido con Bertagna la delusione per la reazione dei "benpensanti" al provvedimento, ma questo non ci può impedire di denunciare tutto ciò che non va in quel provvedimento. Ad esempio, se lo stesso Bertagna invoca che venga chiesto al Governo di «[dettare] al più presto i livelli essenziali di prestazione che le aziende devono assicurare per rendere il lavoro un’altra via per l’apprendimento e la maturazione complessiva della personalità degli studenti dai 15 ai 18 anni» oppure di «chiarire subito come intende verificare i risultati di apprendimento non scolastici, ma comunque educativi dell’apprendistato» vuol dire che queste cose (che sono essenziali e non marginali) oggi non ci sono. Il limite di Sacconi è poi quello di aver opposto ad un approccio ideologico e sbagliato un approccio altrettanto ideologico e – se possibile – ancor più sbagliato: il problema è che quasi il 20 per cento di chi si iscrive in prima superiore non termina il proprio percorso? Il Governo non può limitarsi a prenderne atto.

Una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe piuttosto invertire questa tendenza favorendo con tutti i mezzi la permanenza di ciascuno studente nel percorso, non la sua fuoriuscita da esso. E con "classe dirigente" intendo (ciascuno secondo le proprie responsabilità presenti, passate e future) sia l’attuale maggioranza che l’attuale opposizione.

 

 

Riassumo alcuni possibili provvedimenti solo per punti, visto che ne abbiamo dibattuto spesso anche su queste colonne e non voglio abusare troppo della pazienza di chi ci legge. Dal punto di vista generale occorre smettere di pensare alla scuola come l’unico luogo dove si acquisiscono le competenze e le conoscenze necessarie: ammesso che sia mai stato così, certamente oggi si apprende molto di più (in senso quantitativo) fuori dalla scuola. Smettere di pensare agli 11-13 anni di un ciclo di formazione, come l’unico periodo nel quale si acquisiscono le competenze e le conoscenze necessarie: una bambina che nasce oggi vivrà 100 anni e non si può pensare di mettere tutto ciò che le serve nel suo zaino, pena appesantirlo troppo e per giunta di strumenti che potranno risultarle inutili. Cominciare a pensare che la dispersione scolastica sia un problema del Paese e non dei ragazzi dispersi.

Più nel concreto: 1) rivedere i cicli scolastici, accorciando di un anno il percorso. 2) Abolire la bocciatura e passare ad un sistema di certificazione delle competenze e classi di livello. 3) Dare in capo alle regioni anche l’istruzione professionale. 4) Diffondere capillarmente l’apprendimento “Hands On – Minds On”. 5) Generalizzare percorsi di alternanza scuola-lavoro: generalizzare, ovvero anche per gli studenti che frequentano il liceo.

Come si può vedere, niente di trascendentale o di sconvolgente: basta volerlo.