L’approvazione a maggioranza nella Commissione cultura, scienza, istruzione della Camera dei regolamenti relativi agli indirizzi dell’intero ciclo secondario superiore – hanno votato contro Pd, UDC, IDV – è un passo piccolo, ma importante nella lunga marcia verso la riforma degli assetti istituzionali, ordinamentali, didattico-organizzativi dell’intera scuola media superiore. Chiamare Riforma – con la maiuscola – questo primo passo è indubbiamente esagerato. Ma il passo sussiste. Faticosamente, passando per 14 anni, 4 legislature, 5 ministri, e infiniti dibattiti. A controprova che l’Italia non è un Paese facilmente riformabile, per ragioni che questo giornale ha più volte scandagliato. Meritano pertanto una considerazione meno contingente i testi presentati dal Pd nel dibattito della Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera per dire “no” all’approvazione dello “Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante il Regolamento concernente norme sul riordino dei Licei (atto 132), degli istituti tecnici (atto 133), degli Istituti professionali (atto 134)”, cioè per dire NO a quel primo passo di riforma. In questo “no” si legge per intero la cultura politica della sinistra politica e sindacale e della sinistra democristiana – e non solo: visto che anche l’UDC si è associata al “no”. Si può forse dire più esattamente: la cultura politica della DC e del PCI, quella della Prima repubblica. E in questa cultura politica è possibile trovare molte spiegazioni dell’ostinata resistenza conservatrice del blocco storico che si è consolidato nella scuola.
I tre distinti Pareri del PD comprendono una premessa comune e minuziose argomentazioni analitiche, differenziate a seconda dell’indirizzo.
La premessa muove inevitabilmente dalle sfide globali del millennio, dal rovesciamento in atto del rapporto tra istruzione formale e quella informale (per cui solo il 30% del sapere viene ormai acquisito attraverso la scuola, il 70% passa fuori), dall’esigenza di superare «una visione minimalista del cambiamento in corso», dall’urgenza di «un profondo processo riformatore del sistema dell’istruzione», dalla necessità di «superare l’impianto enciclopedico-nozionistico”, dalla “centralità dell’apprendimento come il coinvolgimento e protagonismo dell’alunno e delle sue potenzialità di acquisizione delle conoscenze, come sintesi tra corpo e mente, tra dimensione cognitiva ed emotiva» ecc… .
Segue poi l’elenco di obbiettivi specifici da realizzare nella scuola, tra cui «la revisione dei curricoli per adeguarli alla domanda sociale di cultura odierna, in funzione di una pari dignità culturale e fra i diversi saperi (umanistici, scientifici, tecnologici, artistici) e senza fratture tra i diversi cicli scolastici»; «la realizzazione di programmi di aggiornamento professionale e che preveda la stabilizzazione del personale precario; la definizione di organici funzionali, una nuova normativa per la formazione di base e il reclutamento e la selezione del personale docente e dei dirigenti scolastici»; «l’attivazione di un sistema di valutazione e di autovalutazione delle scuole e del personale»; il rafforzamento del rapporto tra scuola e territorio, tra le istituzioni scolastiche, gli enti Locali e le Regioni; «l’elevamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni» così come stabilito dal Governo Prodi, con il DM n. 139/2007 che, adeguandosi alle indicazioni europee e pur salvaguardando le specificità curriculari dei diversi percorsi, stabilisce che in ciascuno di essi «debbano essere presenti i quattro assi culturali dei linguaggi, storico-sociale, matematico, scientifico-tecnologico». Ciò comporta che i primi due anni dell’istruzione superiore prevedano «una formazione di base di ampio e consolidato respiro culturale e che, nei profili di uscita, garantisca il conseguimento degli obiettivi specifici di apprendimento».
Se questa parte dei tre Pareri appare scritta in coerenza con la vulgata della sinistra riformista degli ultimi vent’anni, nel passaggio al giudizio finale è “la mano invisibile” della CGIL che scrive con l’inchiostro rosso. Così, mentre si invoca la fine dell’impianto nozionistico-enciclopedistico, si difende la struttura obsoleta e polverizzata, costruita in stretta complicità dal sindacato e dall’Amministrazione ministeriale, delle vecchie classi di concorso. Il Curriculum essenziale è subito messo da parte per invocare la difesa delle vecchie materie e l’introduzione di nuove materie compresa quella di cittadinanza o l’insegnamento autonomo dei linguaggi (Media education). Si riprendono le indicazioni di Fioroni sui quattro assi culturali, ma poi si difende il pulviscolo delle sperimentazioni Brocca, mai valutate e verificate. Dopo aver detto, forse con una punta di esagerazione, che il sapere dei ragazzi viene attinto solo per il 30 per cento dalla scuola e per il 70 per cento dall’esterno, si difende il vecchio e costosissimo e inefficiente Piano nazionale dell’informatica, in cui quelle percentuali passano rispettivamente al 5 per cento e al 95 per cento.
Ci si ricollega a Fioroni per la riforma degli istituti tecnici, ma poi si respinge il tutto, differenziandosi persino dalla posizione delle Regioni, che, pur essendo a maggioranza di centro-sinistra, avevano dato parere favorevole.
Non che manchino osservazioni condivisibili. I regolamenti non sono partiti da una continuazione lineare della Riforma Moratti, bensì da un impulso – peraltro del tutto giustificato, anche a seguito del Quaderno Bianco di Fioroni e Padoa Schioppa – del Ministero dell’Economia e delle Finanze. La confezione definitiva dei Regolamenti appare essere piuttosto la risultante di un intreccio di misure pensate dai vari ministri precedenti, Fioroni compreso. Questa tecnica del patchwork, tipica di un apparato ministeriale politicamente più autonomo che in altre occasioni, è stata forse favorita dall’ipotesi di poter conquistare almeno una benevola astensione da parte dell’opposizione e quindi di superare più facilmente le resistenze della base, che si sente sballottata da misure reciprocamente contraddittorie. Resistenze che comunque si scateneranno quanto più si vedrà concretamente il venir meno di circa 12.000 cattedre in 4/5 anni. Comunque si deve constatare che l’offerta di continuità con Fioroni rivolta al centro-sinistra è stata respinta al mittente. Così che i settori più innovatori si chiedono se non valesse la pena partire semplicemente dalla Riforma Moratti.
Così come non è da sottovalutare l’osservazione circa la difficoltà da parte delle scuole a praticare l’autonomia, se non sono poste in condizione di disporre delle risorse finanziare adeguate e di poter organizzare quelle umane.
Ma il pulpito da cui partono questa e altre critiche sarebbe credibile solo se fossero proposte in nome di un riformismo audace e deciso, che prevedesse il taglio dell’ultimo anno di scuola (lo aveva già proposto Berlinguer!) il core curriculum delle competenze-chiave, la piena capacità di autonoma iniziativa finanziaria, l’assunzione diretta dei docenti scuola per scuola ecc… . Non è questo il caso del PD e della CGIL. Che sono fedelissimi del dogma, secondo cui nostri ragazzi più stanno a scuola, più imparano, più vengono educati, più sono “eguali”, più sono tolleranti. Donde cattedre a gogò, che sono la ratio di tutto. Più ce n’è e meglio è. Del resto, è a questo principio, per il quale il Ministero dell’istruzione si è trasformato da decenni a questa parte nel Ministero del lavoro intellettual-docente, che si deve la crescita tumorale dei corsi, delle materie, delle specializzazioni, delle sperimentazioni.
Si tratta qui di una grave, benché non del tutto inaspettabile regressione culturale della sinistra all’antico corto circuito del massimalismo classico: opporsi a un piccolo passo in avanti, oggi, in nome della grande riforma che si farà domani, dopo la conquista del potere o, più modestamente, del governo. Il vecchio PCI, che non era massimalista, avrebbe contribuito alla stesura del provvedimento e poi si sarebbe astenuto, affermando naturalmente che occorreva ben altro, o avrebbe differenziato il voto o avrebbe motivato il “no” in termini meno tremendisti. A quanto sembra, il riformismo togliattiano di Bersani è stato bloccato alle Termopili dagli eroici massimalisti del PD della Commissione cultura della Camera, guidati da Giovanni Bachelet, franceschiniano di ferro. Forse quel riformismo è ancora gracile, forse non è irresistibile, forse è minoranza reale nel PD. Peccato.