E’ difficile per un Paese in guerra civile fare le riforme del sistema educativo nazionale. La tregua è pertanto il primo passo. Ma il secondo, altrettanto necessario, è quello della messa alla prova delle culture politiche della scuola, cioè di quelle elaborazioni, visioni, interpretazioni del sistema educativo nazionale che ne narrano la storia, ne definiscono il rapporto con la società, con le istituzioni, con la politica, con la storia del Paese. Il sospetto, infatti, è che il blocco o il rallentamento di riforme sia dovuto anche ai ritardi intellettuali di queste culture, che di volta in volta i Ministri e i loro staff e consulenti devono necessariamente assumere quale campo di riferimento e che, pertanto, finiscono per essere connotate come culture politiche di centro-destra o di centro-sinistra.



Tale polarizzazione viene comoda, solo se la si manovri in termini euristici. La cultura, infatti, è più larga e più complessa della politica militante e governante. Il che ha come conseguenza che intere analisi, spezzoni concettuali, determinate intuizioni singole possano essere assunte, indifferentemente, da uno schieramento politico o da un altro. Esiste una cultura politica della scuola di centro-sinistra? La domanda muove dal centro-sinistra, non a caso. Perché la cultura politica di centro-sinistra è egemone, a tutt’oggi, tra il personale della scuola e delle Università, nelle redazioni dei giornali, tra gli opinion leader/maker del Paese. Essa è il frutto maturo di una strategia che parte da lontano, perseguita con determinazione da Togliatti dall’inizio del secondo dopoguerra.



Il primo Congresso del PCI del dopoguerra è dei primi di gennaio del 1946, quando avviene il primo impegnativo dibattito/scontro sul futuro della scuola tra Concetto Marchesi e Elio Vittorini. Poiché il governo del Paese è irraggiungibile, occorre conquistare le casematte – così suggeriva Gramsci – della società civile: scuole, università, case editrici, cinema, teatro, letteratura, riviste, giornali. Quali i fondamenti? Compito della scuola è contribuire all’emancipazione umana, diffondere in tutte le classi subalterne la cultura finora riservata a ristrette élites. Compito della scuola è costruire le condizioni per l’eguaglianza tra gli individui. La scuola è lo Stato. Tocca allo Stato generare le condizioni per l’emancipazione umana e per l’eguaglianza, sottraendo l’educazione ad ogni ipoteca privatistica familiare o religiosa.



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La continuità con lo Stato liberale e con il fascismo è netta. La rottura sta nel tentativo di rompere il carattere di classe dello Stato liberale e fascista. Il che diviene possibile, se vaste masse partecipano alla vita politica e se, naturalmente, la classe operaia conquista, attraverso il PCI, il potere politico e, intanto, l’egemonia nella società. Nella scuola, questa politica di continuità/rottura avviene, confermando per un verso l’impianto istituzionale e culturale di Gentile e di Bottai – il latino è la mannaia selettiva difesa gentilianamente da Concetto Marchesi – e per l’altro tentando di farvi entrare la massa di ragazzi che il sistema liberal-fascista escludeva attraverso una selezione severa.

 

Il passaggio a Nord-Ovest è quello della Scuola media unica. Di lì entrano nel sistema masse di studenti nuovi: il sistema si allarga, ma il rigore gentiliano si perde per sempre ed irreversibilmente. Da qualche tempo si discute di conoscenze e di competenze: qualcuno le contrappone, qualcuno tenta, più saggiamente, di farne i pezzi componibili di un puzzle. Va solo ricordato che l’origine di questa discussione risale a Marchesi-Vittorini 1946: il primo schierato per le conoscenze, il secondo per le competenze. Sotto sotto, sta la discussione tra licealisti e no. Il ’68 è il terreno di verifica di quel tentativo fallimentare di essere “gentiliani di sinistra”: la scuola e l’Università di massa si estendono, ma la qualità incomincia ad abbassarsi, e non ha ancora smesso di farlo.

 

Quando con Luigi Berlinguer, il PCI , sotto mutato nome, va al Ministero dell’Istruzione, l’impianto ideologico è rimasto sostanzialmente lo stesso, con qualche modifica. Lo Stato è sempre il protagonista dell’educazione, ma si riconosce uno spazio giuridico – ma economicamente povero – alla scuola paritaria. Il centralismo burocratico ministeriale viene sfidato dall’istituzione dell’autonomia scolastica, che però resta pur sempre un’autonomia funzionale, non diviene l’espressione istituzionale di un’autonomia della società civile e delle famiglie. E, infatti, fallisce. Luigi Berlinguer formalizza la licealizzazione dell’intera istruzione secondaria, che si era già realizzata negli anni ’90, ma fa timidamente l’occhiolino anche alle “competenze”.

 

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Giuseppe Fioroni, che viene dopo la Moratti, per eccesso di reazione alla bicanalizzazione debole del sistema, ritorna allo status quo antea Berlinguer. Più “centro” che “sinistra”, Fioroni riprende la vecchia linea della sinistra DC: statalismo e uso politico stretto degli apparati alti, automatismo burocratico degli apparati bassi. Esiste una cultura politica della scuola di centro-destra? Di certo esiste una cultura politica del centro-destra, composta di stratificazioni differenti e non sempre coerenti e compatibili. Mentre nel centro-sinistra si registra una sostanziale identità di cultura tra ex-PCI e ex-DC, che fa riferimento al ruolo decisivo dello Stato, non così si può dire del centro-destra. Le forze che lo compongono alla sua nascita – Forza Italia, Lega, AN – hanno orientamenti ideologici assai diversi per quanto riguarda l’educazione: FI più liberale, ma con grosse componenti DC e PSI che non lo sono affatto, AN statalista gentiliana, la Lega agnostica.

 

La legge 53 del 28 marzo 2003 di Letizia Moratti è la sintesi culturale più avanzata del primo centro-destra organico. Il principio di personalizzazione dei percorsi, la partizione dell’istruzione secondaria in due canali di pari dignità, il ruolo delle Regioni, la valutazione esterna e altro ancora. In quest’ultima legislatura il Pdl n. 953 (cosiddetto PdL Aprea) e i nuovi Regolamenti (la cosiddetta Riforma Gelmini) proseguono su quella strada con fatica e qualche arretramento (si pensi alla conferma della scelta di Fioroni sulla tripartizione Licei-Istituti tecnici-Istituti professionali di stato). Complessivamente lo statalismo è in ritirata tattica, ma tutt’altro che sconfitto. Come a dire, con un flash: conservatorismo del centro-sinistra, riformismo debole del centro-destra.

 

Ovviamente, questa semplificazione non fotografa perfettamente nessuno dei due schieramenti. Perché vi sono rare punte di innovazione culturale blairista nel centro-sinistra e punte di pura conservazione gentiliana nel centro-destra. Ma forse è inevitabile lo scarto tra l’universo delle culture politiche e quello della politica governante. Certo è, invece, che l’elaborazione culturale dell’intellettualità italiana e dei mass media sui temi educativi resta straordinariamente povera e disimpegnata. Perché, si sa, l’educazione è faccenda dello Stato… E questo pensiero è come l’aria che respiriamo.