Il nostro è un sistema scolastico nato centralista. A 150 anni dalla sua inaugurazione è ancora centralista. Non è bastata la Costituzione del 1948, tutt’altro che centralista, e lo sfortunato tentativo di riforma Gonella del 1947-1951, per cambiarlo. Inoltre, non è bastato, o almeno è stato per ora messo in stand by, anche il tentativo di cambiarlo alla luce della riforma costituzionale del 2001, seguita dalla legge n. 53/03, la prima legge di «norme generali per l’istruzione statale e di livelli essenziali per l’istruzione e formazione professionale regionale». Ha ragione il Censis, a questo punto: la situazione della realtà italiana, a tutti i livelli, ma scolastico in particolare, sarebbe quella dei “replicanti”. Non però nel significato reso famoso dal film Blade runner, cioè di androidi che prendono le sembianze degli umani, ma in quello di soggetti che “replicano” continuamente nel tempo se stessi, le proprie abitudini, le virtù e i vizi, nel bene e nel male, senza cambiarle mai davvero, in profondità.



Celebriamo, in quest’anno scolastico, i dieci anni dell’autonomia delle scuole. Un’autonomia soltanto funzionale, è vero. Non ancora autonomia senza aggettivi, uscita dal kantiano stato di minorità, come avrebbe voluto la Costituzione del 2001 e la legge n. 53/03. Ancora autonomia funzionale a raggiungere traguardi stabiliti dal centro, con vincoli (e soldi) messi solo dal centro e con controlli che avrebbero dovuto essere del centro (ma che non essendoci mai stati hanno fatto spesso deragliare perfino l’«autonomia funzionale» in «anarchia funzionale»). Comunque sempre meglio di prima quando non c’era neppure l’idea dell’autonomia. Bene. L’autonomia funzionale o, a maggior ragione, quella senza aggettivi sta in piedi e non diventa velleitarismo a condizione di un profondo cambio di mentalità culturale e professionale. Cambio di mentalità che pare ancora più necessario, oggi, alla vigilia di una «nuova» ondata di atti e documenti “romani” che interesseranno tutti gli ordini e gradi di scuola; nel mezzo di una “nuova” campagna ministeriale che vede un dibattito acceso spesso su questioni impossibili (tipo la storia di poter promuovere competenze che non abbiano come ingredienti necessari precise conoscenze ed abilità; o quello di certificare competenze trattate e considerate però soltanto come conoscenze e abilità solo un po’ più complesse: ma allora perché moltiplicare i nomi e quindi la confusione?); all’avvio di una stagione amministrativa e ordinamentale nella quale si continua a confondere, dal centro, senza alcun disagio, le strategie dell’individualizzazione e della personalizzazione o l’obbligo di istruzione con l’obbligo scolastico o l’alternanza scuola lavoro con gli stage. Qual è questo cambio di mentalità per non parlare dell’autonomia, ma per praticarla?



 

Nella storia della scuola italiana il ministero, proprio a causa dell’impianto centralistico, è sempre stato la sorgente della buropedagogia e della burodidattica. Parole e strategie d’ordine, stagioni pedagogiche e didattiche in sé opinabili e controvertibili che lanciate, tuttavia, con il crisma del “superiore” ministero sono spesso diventate, per la massa dei docenti e per le scuole, la garanzia di una professionalità qualificata e si sono accreditate come “avanzate” rispetto ad altre magari migliori, ma non battezzate e sponsorizzate dai sacerdoti ufficiali di questa liturgia.



I Programmi di insegnamento ministeriali, documenti più o meno strategici usciti da viale Trastevere, ordinanze, decreti ministeriali e simili sono diventati, in questo modo, il pendolo che ha battuto nella scuola italiana l’ora di inizio o di termine di vere e proprie «stagioni pedagogiche e didattiche». Non sono, a farlo, come dovrebbe essere, le università, la libera ricerca scientifica e professionale dei docenti, la presenza intellettualmente viva nel dibattito culturale da parte dei protagonisti dei processi educativi, le buone pratiche delle scuole e dei docenti che si impongono da sé. Questi, semmai, per lo più “commentano”, vengono a ruota. Sono l’intendance che suivra. I testi, “il testo”, da commentare, quello che inaugura, e ogni volta enfaticamente, qualche “nuova” stagione, parte dal centro e dai programmi di formazione che esso allestisce al modo emanazionista dell’Uno di Plotino. Con l’ultimo indirizzo che avrebbe sempre più ragioni del precedente e che trasforma l’aggettivo “nuovo” in “più valido”. Fino all’estremo di aver originato una storiografia della scuola inedita e scientificamente inesistente in ogni altro paese al mondo: quella che pretende di fare la storia della scuola, facendo a sua volta la storia dei diversi documenti emanati dal ministero e dalle commissioni ministeriali. Ecco, è questa mentalità e questo atteggiamento anzitutto da cambiare se non si vuole che l’autonomia resti sempre minore. L’avvio di un anno “nuovo” pare l’occasione più propizia per ricordarlo.