Il problema della paritarietà tra scuola statale e non statale è attualmente ancora irrisolto. Vediamo perché.

1. La scuola paritaria e il nodo non ancora sciolto del «senza oneri per lo Stato»

La questione delle cosiddette provvidenze personali, secondo la terminologia adottata da Dossetti in Assemblea costituente, sembra definitivamente risolta nel nostro ordinamento. La parola definitiva è stata pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 454 del 1994, con cui la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una norma che, nel prevedere la fornitura gratuita dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari, la limitava agli allievi delle scuole statali e di quelle autorizzate a rilasciare titoli di studio riconosciuti dallo Stato, per contrasto con gli artt. 3, 33 e 34 Cost. Con quella sentenza la Corte superò i propri precedenti (e cioè le sentt. nn. 7 del 1967, 36 del 1982, 106 del 1968 e 125 del 1975) che avevano dichiarato infondate analoghe questioni ribadendo il solo “obbligo” finanziario dello Stato con riguardo alle scuole statali.



Con quella sentenza la Corte si è posta dal punto di vista del fruitore del servizio scolastico, restando indifferente alla natura (statale o non statale) della scuola, preoccupandosi soltanto di assicurare che tutti gli alunni titolari del diritto di istruzione gratuita, indipendentemente dalla scuola frequentata, siano posti nella medesima condizione per quanto concerne l’accesso a quelle provvidenze che sono strumentali rispetto all’istruzione. L’eguaglianza personale, in sostanza, tra alunni di scuole statali e non statali, con buona pace di tutti è un dato di fatto, anche se ha dovuto imporsi a livello giurisprudenziale con non poche difficoltà.



Ciò che, invece rimane controverso è il ruolo della scuola non statale o paritaria nel nostro sistema nazionale di istruzione. Più alla radice ciò che rimane controverso è la possibilità di una reale integrazione pubblico-privato nel sistema dell’istruzione. Che si tratti di una peculiarità tutta italiana è dimostrato da tempo. Un bel libro di Luisa Ribolzi di qualche anno fa titolato Il sistema ingessato (1997) ha mostrato come il nostro Paese sia uno dei pochi ad essere rimasto inchiodato ad un dibattito meramente ideologico sulla relazione tra questi due tipi di istituzioni e, dunque, vi sia la necessità di sbloccarlo, infilando decisamente la direzione di un suo superamento.



Tradotto per i giuristi quell’invito significava adottare una interpretazione dell’art. 33 Cost., e della formula «senza oneri per lo Stato», svincolata dai termini contrappositivi e orientata, invece, all’integrazione tra i due tipi di scuola. L’approvazione della cosiddetta legge paritaria, la legge n. 62 del 2000, insieme ad altri importanti atti normativi di cui si darà conto più avanti, imboccavano quella direzione e pareva, in allora, si potesse finalmente dichiarare sciolto il dilemma della contrapposizione scuola statale-scuola non statale (per utilizzare la terminologia presente nella Costituzione) attraverso l’integrazione di quest’ultima, a certe condizioni, nel sistema nazionale di istruzione attraverso il suo finanziamento.

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In realtà quella legge non ha mai avuto una attuazione coerente con il suo impianto di fondo, per cui ad oggi il sistema è ancora «ingessato». Quali che siano le ragioni che hanno impedito la sua coerente attuazione non c’è dubbio che molta parte di esse continui a risiedere nella formula «senza oneri per lo Stato», o meglio nell’interpretazione che di essa pare persistere, almeno nelle scelte di politica legislativa. Tale persistenza, tuttavia, come cercherò di dimostrare, produce una latente e pur potente contraddizione.

 

2. Il dibattito in Assemblea Costituente: intenzioni reali e contraddizioni inevitabili

 

Dai lavori preparatori si evince che la Democrazia Cristiana cedette alla fine sul tema dei contributi pubblici a patto che fossero garantite la libertà e la parità della scuola non statale e che, per altro verso, lo schieramento laico riconobbe il pluralismo scolastico, senza però transigere sul versante dei finanziamenti.

 

In questa prospettiva l’emendamento proposto dall’on. Corbino («senza oneri per lo Stato») mirava propriamente ad escludere un diritto costituzionalmente garantito per le scuole non statali ad ottenere finanziamenti: esse potevano nascere su iniziativa dei privati, ma non ottenere finanziamenti dallo Stato. Quando si trovò a chiarire il significato della formula lo stesso Corbino, a nome anche degli altri proponenti precisò che «noi non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore degli istituti privati; diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato. È una cosa diversa: si tratta della facoltà di dare o non dare».

In realtà, come ha ben dimostrato E. Minnei nel suo attento lavoro di ricostruzione dei Lavori preparatori, nello schieramento laico non si pensava ad un’apertura; non si pensava, in altri termini, ad un possibile intervento dello Stato poiché era, invece, molto diffusa in quello stesso schieramento l’idea che una scuola non controllata dallo Stato potesse essere finanziata dallo Stato stesso.

 

Le dichiarazioni degli esponenti di punta della Dc andavano nella stessa direzione. Basti ricordare quelle di Moro («noi chiediamo la libertà della scuola privata non le sovvenzioni dello Stato») e di Dossetti (che sin dall’inizio dei Lavori precisò che il suo partito si era preoccupato della parità della scuola e «non aveva mai inteso con questa risolvere i problemi di eventuali aiuti economici da parte dello Stato alla scuola non statale, ma garantire in modo concreto ed effettivo la libertà di questa scuola»).

 

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Se ciò è incontestabile, è altrettanto inconfutabile che in tal modo si procedeva sulla scuola in maniera totalmente asimmetrica rispetto ad altri settori di diritti sociali, in cui, invece, gli stessi Costituenti andavano disegnando sistemi di integrazione pubblico-privato. Così per l’istruzione universitaria, per cui l’art. 33 ultimo comma garantisce che «Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato».

 

L’autonomia universitaria, dunque, è attuabile quale libertà del “non statale”, funzionalizzata al perseguimento di interessi di caratteri generale. Con la conseguenza che le Università possono esercitare le funzioni connesse all’istruzione superiore non solo in qualità e in quanto enti strumentali dello Stato, ma in quanto espressione di autonomia.

 

Altri riscontri importanti della possibile convivenza, ma altresì della possibile fungibilità dell’intervento privato con quello pubblico si rinvengono nelle norme in tema di servizi sociali che affermano la libertà di intervento del soggetto privato in materia di assistenza (“L’assistenza privata è libera”, art. 38, comma 6) e che prevedono altresì che ai compiti di assistenza sociale (comprensivi sia della previdenza, indirizzata ai lavoratori, quanto della assistenza, da assicurarsi, invece, a tutti i cittadini in stato di bisogno) provvedono organi ed istituti predisposti o “integrati” dallo Stato (art. 38, comma 5).

 

Sia l’attività di previdenza, sia quella di assistenza, dunque, non sono riservate allo Stato o ad enti pubblici. Nel limite del rispetto delle leggi in materia (che investono sia l’aspetto strutturale che quello dell’esercizio dell’attività) esse possono essere esercitate da enti privati, rispetto ai quali l’eventuale intervento dello Stato vale unicamente a garantirne un migliore funzionamento. Ed anzi nel campo dell’assistenza l’affiancamento dell’intervento privato a quello pubblico può avvenire a prescindere dal rispetto di tali limiti. Nell’art. 39, inoltre, si affidano all’autonomia dei privati (“L’organizzazione sindacale è libera”, comma 1) funzioni di regolazione nel campo dei rapporti di lavoro. Il principio di libertà con cui si apre la norma, in realtà, la pervade nella sua interezza: così nel comma 2 si impone ad essi il “solo” obbligo della registrazione “secondo le norme di legge”, anche se tale registrazione viene condizionata all’adozione di un ordinamento interno a base democratica (comma 3).

 

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La dimostrazione più evidente dell’esplicarsi di tale libertà nell’esercizio di una funzione pubblica, qual è quella della regolazione dei rapporti di lavoro, è del resto, raccontabile prevalentemente attraverso la vicenda della mancata attuazione dell’art. 39, quanto all’obbligo di registrazione dei sindacati. Gli attuali contratti collettivi di lavoro, pur se stipulati da sindacati non registrati, hanno finito, infatti, per avere effetti sostanzialmente vincolanti ed estesi alla generalità dei lavoratori, compresi quelli non sindacalizzati.

 

Anche l’art. 43 può venire ed è stato letto in ottica sussidiaria. Poiché le imprese o categorie di imprese produttrici di servizi pubblici essenziali possono essere nazionalizzate o riservate per motivi di interesse pubblico, infatti, si presuppone che i servizi pubblici siano prodotti da imprese nell’ambito di un «mercato». Ed ancora, nella stessa ottica sussidiaria si è letto l’art. 41, al primo comma, con espresso riferimento alla libertà dell’iniziativa economica privata (“L’iniziativa economica privata è libera”). Il valore presupposto della nostra Costituzione, infatti, non è la libertà di mercato, ma piuttosto la libertà di iniziativa economica privata “nella configurazione positiva” che essa assume nei primi due commi dell’art. 41.

 

Rispetto a tale “positiva configurazione” la riserva di legge di cui all’ultimo comma dell’art. 41 (“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”) dovrebbe considerarsi una sorta di necessaria intermediazione attraverso la quale il legislatore garantisce lo spazio di azione dei soggetti pubblici e privati e, non, una sottrazione di spazi.

 

Il quadro costituzionale che si è appena richiamato prospetta dunque una convivenza quasi fisiologica di poteri pubblici e soggetti privati (singoli o associati) nell’ambito di uno stesso settore di amministrazione di interessi generali, ed anzi, adombra una possibile fungibilità (dell’intervento privato e di quello pubblico), a certe condizioni e nei medesimi ambiti. Perciò la dottrina ben prima della revisione costituzionale del 2001 e dell’introduzione espressa del principio di sussidiarietà nella nostra Costituzione, aveva sostenuto che, in realtà, tale principio già la pervadeva, attraverso la previsione delle attività di soggetti «non statali» (università libere, associazioni sindacali, scuole parificate, enti previdenziali, attività economica privata….) come azioni di interesse generale sostituibili, comunque affiancabili a quelle dello Stato e/o di altri soggetti pubblici.

 

L’attività privata finalizzata all’interesse generale, in altri termini, non si oppone alla presenza di un sistema amministrativo statale, e non costituisce una fuga da tale sistema anzi, come mostra il quadro costituzionale sopra ricostruito, è proprio dall’interno e all’interno del sistema che, invece, può esplicare i suoi effetti più produttivi, come criterio interno di ripensamento di fini e modalità dell’azione e organizzazione amministrativa. Del resto, una volta sbiadita la questione della natura del «soggetto» che gestisce perché si mette in primo piano l’efficacia della sua azione, non solo non può escludersi l’intervento nei settori di amministrazione di soggetti “non statali”, ma anzi questo potrebbe essere necessariamente richiesto in tutti casi in cui risulti, invece, necessario allo scopo da raggiungere.

 

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Pare evidente, allora, che la clausola «senza oneri per lo Stato» risulta assolutamente eccentrica e asimmetrica rispetto al quadro costituzionale nel suo complesso. La preferenza per la scuola statale non può, infatti, tradursi nella regola negazione del principio di integrazione statale-non statale, pena il venir meno della democraticità del sistema stesso. Quello che si vuole sottolineare, in sostanza, è che la formula «senza oneri per lo Stato» è una regola asimmetrica al principio costituzionale che permea molte delle attività di interesse generale rivolte alla collettività: l’integrazione statale-non statale. Tradotto in termini costituzionali ciò significa che quella clausola non è un principio, ma è una regola e come tale va interpretata alla luce dei principi costituzionali, e alla luce dell’evoluzione sociale e del mutato contesto storico-istituzionale.

 

(Primo di due articoli. La seconda parte sarà pubblicata domani, mercoledì 13 ottobre)

 

 

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