Il ddl di riforma dell’università, approvato al Senato il 29 luglio scorso, torna in Commissione, e ci resta fino alla fine di novembre. Lunedì mattina il ministero dell’Economia aveva fatto sapere che la riforma “pregiudica la stabilità dei conti di finanza pubblica”. Determinante è stata l’analisi tecnica della Ragioneria generale dello Stato, che ha ritenuto i fondi per l’attuazione insufficienti. Motivo? L’emendamento – e il costo – per trasformare in associati 9mila ricercatori in 6 anni. Di conseguenza il ddl, provvisoriamente, salta. È scontro politico tra i ministri Gelmini e Tremonti.
Lo stesso ministro Tremonti però, nella giornata di ieri, dopo l’approvazione lampo della legge di stabilità, ha detto in conferenza stampa che i fondi per l’università salteranno fuori nel decreto di fine anno. La riforma dunque nei propositi è salva; ma resta la “sconfitta” politica, che pesa non poco nell’immagine dell’esecutivo. Il sussidiario ne ha parlato con Enrico Decleva, rettore dell’Università di Milano e presidente della Crui.
Ieri il ministro Tremonti ha assicurato per fine anno la copertura del ddl università, col decreto milleproroghe. Ancora stamattina la riforma era in un vicolo cieco. I suoi dubbi, come presidente della conferenza rettori, sono risolti?
«Vorrei poterle dire che sono risolti, ma non è così. La legge per il momento è finita in un cassetto: potrebbe ritornarne fuori, ma potrebbe anche essere l’anticamera della sua archiviazione. Tutto dipende a questo punto dalle risorse effettive che saranno messe in campo. E dopo quello che è successo in Commissione, non bastano più le promesse generiche. Occorre una quantificazione precisa, e che non sia lontana dal fabbisogno ben noto al ministero dell’Economia, che è dell’ordine di un miliardo di euro».
A fronte di quali tagli, professore? Vuole richiamare i più importanti?
«A fronte di una imposizione di tagli per il solo 2011 ben maggiore: meno 1 miliardo e 300 milioni sul Fondo di finanziamento ordinario rispetto al 2008; meno 139 milioni di euro sul fondo per le borse di studio; meno 45 milioni sul Fondo per le Università non statali. Con il miliardo di euro richiesti, si può provvedere decentemente a tutte queste voci e a finanziare l’avvio della riforma. Ma troveremo queste cifre nei provvedimenti di fine anno del ministro Tremonti? Non mi sento, francamente, di fare previsioni».
In ogni caso per il ddl non tirava una buona aria. Sul fatto di metterlo in calendario alla vigilia dell’inizio della Sessione di Bilancio, lei aveva dichiarato che «se confermata, equivale molto probabilmente, nella situazione politica che stiamo attraversando, alla rottamazione anticipata del provvedimento»…
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«In una situazione politicamente normale, lo spostamento dei tempi parlamentari di un provvedimento non avrebbe niente di drammatico. Ma nella realtà italiana nessuno sa veramente in quali condizioni ci troveremo tra un mese. Ricordo che due settimane fa, quando facevo la dichiarazione da lei citata, si davano quasi per sicure elezioni a brevissimo termine. Oggi non se ne parla apparentemente più, ma che manovre siano in corso, più o meno percepibili, è abbastanza evidente. E anche la vicenda della quale ci occupiamo potrebbe entrarci. Ma lasciamo da parte le dietrologie. Il dato centrale è che si è persa l’occasione di approvare il provvedimento, come sarebbe stato sicuramente possibile, se solo si fosse garantita la copertura dell’emendamento sui costi aggiuntivi da destinare alla chiamata di ricercatori che avessero superato l’abilitazione a associato. Nelle università chi è contrario alla legge ne ha sicuramente tratto i migliori auspici. Non è detto che sia finita qui, certamente. Ma non lo si può escludere».
Ragioneria generale dello Stato e ministero dell’Economia con lo stop hanno indirettamente legittimato l’ipotesi che il punto del contendere, ovvero l’operazione ricercatori (trasformazione di 9mila ricercatori in associati in 6 anni, all’interno di un fondo per il merito anche con altre finalità da 1,7 miliardi di euro fino al 2016, ndr) fosse una sanatoria. È così?
«L’interpretazione data è un assoluto abbaglio. Il meccanismo prevedeva, semplicemente, di finanziare la chiamata di ricercatori che avessero ottenuto l’abilitazione ad associato secondo i nuovi meccanismi della legge, che non comportano in alcun modo un’ope legis».
Professore, facciamo un passo indietro. Vuole spiegare al lettore qual è la posta in gioco e quali sono secondo lei i punti di forza della riforma?
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«Il ddl interviene in più direzioni. Modifica il sistema di governo degli atenei. Introduce e rafforza i sistemi di valutazione. Prevede la revisione dei sistemi di contabilità e di controllo finanziario e gestionale, fino al commissariamento degli atenei dissestati. Prevede l’accreditamento dei corsi di studio anche come un modo serio per affrontare la questione, altrimenti insolubile, dell’abolizione o della revisione del valore legale del titolo di studio. Rivede radicalmente il sistema di reclutamento della docenza. Introduce la figura del ricercatore a tempo determinato, garantendogli però, attraverso la tenure track, la possibilità di accedere direttamente alla fascia dell’associato. Introduce obbligatoriamente una certa mobilità. Rivede e aggiorna la disciplina del tempo pieno. Introduce obbligatoriamente la prassi della peer review nella valutazione dei progetti di ricerca, prevedendo un unico Comitato nazionale di garanti che se ne occupi. Interviene positivamente sul diritto allo studio e la valorizzazione del merito studentesco. E non è ancora tutto».
Quindi disporre o non disporre di una normativa di riferimento di tanta ampiezza avrebbe evidenti effetti.
«È chiaro. E tanto più considerato come vari atenei abbiano già anticipato aspetti della riforma, o si apprestino a farlo. Una mancata approvazione eliminerebbe una fonte di legittimazione e un incentivo ad operare in senso innovatore sulla quale si è contato. Sarebbe la riprova che in Italia le riforme sono impossibili. E verrebbe vanificata l’azione svolta, anche attraverso la gestazione della riforma e l’accettazione di alcune sue norme, per rilegittimare il sistema. Più banalmente: ne risentirebbe il buon funzionamento delle attività istituzionali, e crescerebbe la demotivazione. Sarebbe vanificato, forse per sempre, lo sforzo per tenere il sistema universitario italiano in Europa, adottandone alcuni standard. Non mi sembrano conseguenze negative da poco».
Si scontrano scelte di investimento sul futuro e conti pubblici. Come se ne esce?
«Ma i conti pubblici sarebbero intaccati ben poco dagli interventi previsti. Per contro sarebbero rilevanti gli effetti positivi, anche sui futuri conti pubblici, di una politica che valorizzi i meriti e le capacità. L’università è, da vari punti di vista, il futuro. Rendiamoci conto di che cosa significhi rinunciare a investirvi».
(Federico Ferraù)