L’educazione è ben di più che la trasmissione di competenze e conoscenze, essa è la consegna da parte degli adulti della tradizione da cui provengono e dei valori positivi che essi vivono. È questa passione che si comunica nel rapporto con il giovane adolescente. Se si va a fondo delle tante “eccellenze” educative presenti nel nostro paese si scopre che in esse è presente questa passione al destino proprio e altrui degli educatori che vi operano.
L’impostazione di adeguate policies, sino agli aspetti ordinamentali, deve valorizzare questa capacità di guardare alle cose e agli uomini. Una capacità figlia della nostra cultura, dai grandi fiolosofi greci, sino alla concezione giudaico cristiana; come ricordava Luigi Giussani, la concezione antropologica dell’uomo, che è all’origine di ogni tentativo di approccio al reale, incide radicalmente sulla concezione stessa che si ha dell’educazione e porta con sé la conseguenza di disegnare percorsi e modelli coerenti con questo punto di partenza.
Nel nostro paese (ma non solo) la tentazione di un dirigismo pianificatorio, assieme alla cultura gentiliana del sapere intellettuale, ha caratterizzato lo sviluppo del sistema educativo impedendone una moderna e adeguata evoluzione, spesso incapace di valorizzare le eccellenze e di riconoscere ciò che nasce da esperienze di tipo sussidiario.
Per superare questa impasse occorre garantire una pluralità di percorsi educativi; in questo senso la ricerca di modelli unici o di idealtipi di riferimento produce un impoverimento complessivo dell’offerta educativa, delegittimando ogni proposta (incluse le eccellenze) che da tali standard si discosti in modo significativo. D’altra parte il superamento di tale modello è in atto, come testimonia il fatto che in Francia è stata messa in discussione l’esperienza del collège unique, in Spagna si pone grande attenzione sui percorsi di apprendistato per giovani 14-16 anni, e nel Regno Unito si è aperto alla diversificazione dei canali nel conseguimento del diritto-dovere.
Occorre differenziare per garantire la personalizzazione dei percorsi, l’ampliamento degli strumenti metodologici e il riconoscimento del valore delle autonomie funzionali e sociali. Le nuove policies devono tendere a superare la dicotomia tra il sapere e il saper fare (superando quella cultura che ha relegato la manualità a puro addestramento antiumano), garantendo riconoscimenti espliciti a entrambi i sistemi, nonché permettere un elevato livello di autonomia nella scelta degli insegnanti.
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In tale direzione è auspicabile la realizzazione di un modello federalista incentrato su processi di sussidiarietà orizzontale, capace di dare spazio a proposte educative diversificate che valorizzano quanto di buono la cultura e la tradizione del nostro paese ha costruito nel tempo. L’alternativa alla valorizzazione delle reti territoriali rischia di essere quella di un localismo sterile e soffocante almeno quanto lo è stata una certa concezione statalista.
D’altra parte un altro denominatore comune delle così dette eccellenze risiede proprio in elevati livelli di autonomia nella scelta degli insegnanti e nella loro capacità di far rete con il territorio; pur in assenza di un quadro normativo adeguato, esse realizzano modelli già in atto in altri paesi come le Charter School americane e le Trust School inglesi.
In fondo vale per il sistema educativo ciò che riguarda l’intero campo delle politiche di welfare; la necessità di accelerare il passaggio dal welfare state alla welfare society, in cui si trasferisce alla società civile il ruolo centrale nel ripensare quell’insieme di politiche che rendono possibile affrontare crescenti livelli di incertezza a partire dalla community care.
Nello specifico dei sistemi educativi, la pluralità necessita, da un lato, che si riconosca un reale sistema di parità delle agenzie educative (del sistema scolastico e di quello dell’istruzione e della formazione professionale), dall’altro, che si offrano strumenti (il buono scuola, il voucher e la dote formativa, ecc.) capaci di favorire una reale libertà di scelta per i giovani e per le loro famiglie. Non vi sono asimmetrie informative e di conoscenza (come mostra il successo dei percorsi triennali di formazione) che possono giustificare l’indebito sostituirsi ai soggetti a cui spetta la scelta. Tutto il dibattito sulla scelta precoce a 13-15 anni è stato viziato da questa impostazione ideologica.
Per superare questo ostacolo occorre passare dal concetto di successo scolastico a quello di successo formativo, stimolando in ogni allievo l’espressione delle proprie potenzialità, realizzando una pedagogia del “successo” che non porta alla selezione dei migliori, ma al sostegno, al raggiungimento degli obiettivi prefissati da parte del maggior numero possibile di allievi. La società, attraverso i media, cerca dei “vincenti”: dalla scuola, al lavoro, al sociale, apparentemente non sa che farsene dei “mediocri” (ma mediocri rispetto a cosa?). Le eccellenze in campo educativo sono lì a dimostrarci che si possono valorizzare le capacità e le inclinazioni di tutti e di ciascuno, evitando a tanti giovani di “avvitarsi” in percorsi di disistima e autodistruzione.
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Queste esperienze indicano la necessità di favorire la transizione da un impianto curriculare di tipo disciplinare ad uno nuovo basato sulle competenze e sui risultati di apprendimento, rispettoso dei diversi stili cognitivi, basato sulla certificazione delle competenze prima ancora che su cicli formativi fatti di curricola e titoli (in tal senso sarebbe molto utile l’abolizione legale del titolo di studio). Tutte le esperienze di eccellenza dimostrano che occorre spostare il focus dell’attenzione dagli indicatori di input (le ore svolte, le materie, i laboratori) a quelli di output (le competenze acquisite, le abilità, il problem solving); si deve dunque enfatizzare la centralità dell’esperienza e della competenza, conseguibili anche attraverso il metodo induttivo per ricerca e scoperta di cui le varie forme di alternanza sono una importante modalità attuativa.
La possibilità che questo modello possa, non solo esistere come sperimentazione pionieristica, ma divenire suggerimento di sviluppo per l’intero sistema educativo è fortemente legata all’evoluzione del quadro normativo di riferimento e, più in generale, alle decisioni strategiche, in termini di politiche per l’inclusione sociale e per il sostegno ai sistemi educativi.
In tale direzione un ruolo rilevante è assunto dalle Regioni. Esse sono una delle chiavi fondamentali per la costruzione di un nuovo modello di governance che, da un lato, deve garantire una programmazione unitaria delle risorse disponibili, caratterizzata da elevati livelli di flessibilità, al fine di seguire il bisogno laddove si manifesta e secondo le modalità con cui emerge e, dall’altro, sostenere l’innalzamento della qualità del sistema dell’offerta, sia attraverso sostegni agli investimenti strutturali, sia finanziando azioni capaci di valorizzare le reti presenti sul territorio. Nell’esplicare tale ruolo le Regioni dovranno necessariamente procedere nella direzione di un rapporto strutturato sia di tipo bilaterale con il governo centrale, sia multilaterale con le altre Regioni e con le Province al fine di rendere condiviso e armonico lo sviluppo dei sistemi educativi.
La ricerca di questo pluralismo dei percorsi e dei soggetti, sostenuta da un nuovo quadro di autonomie, aperta ai diversi contributi degli attori del territorio, è la via maestra per rendere accessibile a tutti il percorso della conoscenza e, soprattutto, è la strada per favorire una proposta educativa incentrata sulla singola persona, capace di valorizzarne i talenti e le inclinazioni.
L’alternativa è far morire il nostro sistema educativo continuando sulla strada degli standard minimi di taglio scolastico; dei vincoli sul corpo docente abilitato e/o inamovibile; dei vincoli in termini di accreditamento che guardano più a requisiti formali che alla sostanza e alla qualità dei processi; delle incertezze economiche legate a finanziamenti stop-and-go.