È critico verso il ddl Gelmini di riforma dell’università, nato sulla base di un ampio progetto di autonomia poi smentito da un’impostazione fortemente centralistica. Ma «è vitale per l’università italiana che il ddl Gelmini passi subito. Diversamente resteremmo in una palude per ancora chissà quanti anni, con le università nell’incertezza totale». Questo e altri paradossi nell’opinione di Gianni Toniolo, docente di economia nella Duke University, Usa.



Lo stop al ddl Gelmini dimostra che rigore e investimenti in questa fase non si possono conciliare. Il primo ha avuto la meglio, anche se Tremonti ha assicurato che ora si apre la fase dello sviluppo.

In generale io penso che Tremonti abbia fatto bene, nella situazione italiana, a tenere ferma la palla della finanza pubblica. È difficile in Italia fare politiche selettive: se si aprissero i rubinetti avremmo l’assalto alla diligenza, e questo Tremonti lo sa bene. Lo dimostrano le critiche che puntualmente investono le sue scelte. Fatta questa premessa, restano le scelte strategiche da compiere. Ci vorrebbe una classe dirigente che si desse come scopo alcune precise priorità. E il rilancio dello sviluppo è la prima di queste.



Siamo al punto di prima: i costi?

Ci sono alcune riforme che non costano: si cominci da quelle, tagli compresi. Ci sono poi alcune riforme che costano, e cioè ricerca, scuola e infrastrutture. Riforme sulle quali tutta la classe dirigente italiana dovrebbe trovare un consenso. È la condizione preliminare indispensabile.

Torniamo all’università.

La nostra classe politica deve scegliere: o dà denari pubblici all’università, o la mette senza indugi e mezze misure in condizione di autofinanziarsi. Consentendo agli atenei di muoversi sul mercato degli studenti, e sul mercato della ricerca, in modo dinamico, moderno, come fanno tutte o quasi le università del mondo, senza i lacci e laccioli burocratici che frenano il nostro sistema.



La riforma contiene emendamenti finalizzati a favorire l’afflusso di capitali privati. E il nuovo sistema di governance dà più peso agli stakeholder esterni.

Motivo in più per non rinunciare alla riforma. Le faccio un esempio emblematico. Nella mia vecchia università, Tor Vergata, io e alcuni colleghi avevamo ottenuto un finanziamento di 300mila euro da una multinazionale Usa da destinare ad un’importante progetto di ricerca. Invece che per altri canali, abbiamo deciso di farli passare per l’università. Non l’avessimo mai fatto. Difficoltà incredibili, burocrazia, rinvii. Gli americani non si capacitavano come una cosa del genere potesse accadere: avevano pronti i soldi e volevano semplicemente coprire i costi di un progetto, qualcosa che nelle altre università del mondo è all’ordine del giorno. Non mi chieda com’è finita. Ecco perché insisto: i politici devono decidersi, o danno all’università i soldi di cui ha bisogno, oppure creino le condizioni perché le università si finanzino da sole. Ma per questo servirebbe un’autonomia che non hanno.

 

Lei enfatizza due sistemi radicalmente alternativi. La riforma non le piace?

 

Quella del ministro Gelmini è una buona riforma, che però non funzionerà. Mi spiego. Dopo essersi insediata il ministro ha messo nero su bianco, in un eccellente documento, la sua idea di riforma. In quel progetto c’era una grande autonomia degli atenei, che a mio avviso è l’unico strada credibile per gestire un’università moderna. Dopo di che la legge ha perso questo aspetto di autonomia, diventando estremamente centralista. Ecco perché dico che non riuscirà a funzionare. A meno che la Gelmini non sia in grado di cambiare per davvero il ministero…

 

Cosa c’entra il ministero, professore?

 

C’entra eccome, perché questo è il vero problema: che noi continuiamo a immaginare che ci sia un “grande fratello” al centro che governa le università. Questo non esiste più in nessun paese al mondo, tranne ormai che da noi, in Francia e, almeno in parte, in Spagna.

 

Dunque secondo lei la riforma è basata su una serie di idee che condivide, ma la cui realizzazione è affidata ad un moloch centralistico, che rischia di pregiudicarne il risultato.

 

È così. L’Italia è un paese dove i professori vogliono comandare ma non avere responsabilità, e dove i rettori vogliono essere guidati dal ministero. Sono l’espressione di una società malata di statalismo. E tuttavia sono il primo a sperare che la riforma vada in porto.

 

Quale sarebbe la sua ricetta per risanare l’università italiana?

 

L’unico modo è di dare un’amplissima autonomia degli atenei, e creare grandi sistemi di incentivi da accompagnare a grandi sistemi di punizioni. I concorsi siano aboliti e le università assumano chi vogliono. Chi non fa quadrare i bilanci sia penalizzato, fino al commissariamento. Quegli atenei che sono troppo malati per essere curati, vengano chiusi.

 

Viene quasi da pensare che lei speri nella “rottamazione” del ddl. Eppure, dice di augurarsi che venga approvato…

 

Allo stato delle cose è vitale per l’università italiana che il ddl Gelmini passi subito. Diversamente resteremmo in una palude per ancora chissà quanti anni, con le università nell’incertezza totale su quello che possono o che devono fare. Dopodiché, per piacere, non parliamo più per vent’anni di riforma universitaria. Chiediamo al successore della Gelmini, e al successore del successore, di limitarsi a fare una gestione intelligente della legge che verrà approvata.

 

In altre parole?

 

Una routine ben organizzata è l’unica ancora di salvezza per l’università italiana. Fatta la legge, tocca alla buona amministrazione. Bisognerà gestir bene la legge, implementarla, senza vagheggiare ulteriori rivoluzioni. Lasciamo che le università si adattino al sistema, che ogni ateneo si organizzi, che si crei un sistema di reclutamento in grado di produrre aspettative stabili. Al tempo stesso, però, si faccia un ministero e una struttura intelligente capace di gestire il “mostro” dal centro. È un second best rispetto all’idea di avere tante università autonome: dopo l’autonomia, e in sua mancanza, è la migliore soluzione.

 

«Nelle prime 100 università a livello internazionale sono pochissime le università italiane – ha detto di recente il ministro – ma sbaglia chi pensa che questo sia solo un problema di risorse: è in primo luogo un problema di regole. La verità è che l’impostazione falsamente egualitaria del ’68 ha portato le nostre università agli ultimi posti nelle classifiche internazionali».

 

Condivido in pieno. Smettiamola col mito dell’eguaglianza. L’idea che tutte le università, tutti i docenti, tutti gli studenti siano uguali è un’imbecillità che la Gelmini ha ragione di stigmatizzare. Qui non c’entra l’uguaglianza degli uomini, bisogna riconoscere che dentro l’università ci sono i bravi e i non bravi. Occorre che l’università sia in condizione di seguire al meglio gli studenti bravissimi, senza essere condizionata da una moltitudine di mediocri.

 

Auspica atenei di serie A e atenei di serie B?

 

Questa è una semplificazione indebita. È possibile valorizzare l’eccellenza e al tempo stesso seguire in modo diverso, con istituzioni diverse, i ragazzi che sono più indietro. L’università non può che essere differenziata, anche se questo è alieno alla mentalità italiana. Non vedrei niente di grave se ci fossero atenei specializzati nel preparare bene le lauree triennali, o dottorati limitati a quelle università che hanno una ricerca più avanzata. Qui negli Usa ci sono college specializzati nell’undergraduate, lauree di primo livello, e alcuni di questi sono di eccellenza straordinaria. Ma non hanno programmi di dottorato.

 

Le nostre università sono davvero così indietro?

 

No. Molti dei nostri atenei, forse una ventina, garantiscono ancora, a livello di laurea triennale e quinquennale, una formazione eccellente a livello internazionale. Io lo dico sempre ai ragazzi che premono per andarsene all’estero, anche se molti continuano a farlo, e non intendono tornare indietro.