È in grado, la scuola, di riconoscere i “talenti” degli allievi nel rispetto delle differenze? Come svilupparli, nel quadro di un sistema scuola che sulla scorta di una vecchia cultura di impianto statalista, tende ancora a livellare tutto e tutti? Il sussidiario ha parlato di questo e altro con Giorgio Chiosso, pedagogista, che oggi a Torino aprirà i lavori del convegno Un’altra scuola è veramente possibile? quattro questioni aperte, un’unica sfida, promosso dal Dipartimento di Scienze dell’educazione e della formazione dell’Università di Torino.
Nella scuola attuale si confrontano libri e computer. Qual è a suo modo di vedere lo stato attuale della scuola italiana in questa dialettica tra passato e futuro? Chi è più “avanti”: allievi o insegnanti?
Non da oggi la scuola appare più “arretrata” del resto della società. Questo perché la scuola è, per sua natura, prima di tutto un luogo di deposito di saperi ed esperienze che una generazione trasmette all’altra. Lo può fare con i libri e lo può fare con i computer: nell’uno e nell’altro caso essi sono strumenti, non fini. Tutto dipende dal fattore “uomo” e cioè da come gli insegnanti concepiscono e usano libri e computer. Se un docente fa studiare a memoria il testo non serve a niente e fa solo danni, ma lo stesso accade se un insegnante si limita a far “smanettare” i suoi allievi sulla tastiera di un pc. Ciò che conta è il senso che viene dato – da docenti e allievi – all’esperienza dell’apprendimento.
Esiste il rischio che i nuovi metodi (e con essi i nuovi saperi) diventino il fine e non un mezzo per favorire la formazione, la conoscenza e l’apprendimento?
La scuola attuale si trova di fronte ad un bivio che già Maritain nel lontano 1943 aveva lucidamente previsto in un saggio proprio intitolato L’educazione al bivio. Da una parte la tesi di quanti pensano alla scuola in termini funzionalistici e cioè principalmente (se non proprio esclusivamente) come leva dello sviluppo e della concorrenza economica. Di qui l’ossessione del “sapere utile” o di quella che uno studioso francese ha definito “l’ideologia della professionalizzazione”. Dall’altra sta la prospettiva di una scuola primariamente al servizio della crescita della consapevolezza e della libertà personale. Una scuola che è innervata di saperi apparentemente “inutili”, ma ben finalizzati a potenziare la riflessione personale anche in funzione (dopo) del soddisfacimento dei compiti professionali.
Allora lei è favorevole alla licealizzazione della scuola secondaria? Non è rischioso sganciare la scuola dal mondo del lavoro e della produzione? Non ci sono valori educativi anche in questo ambito?
Continua
Non sono affatto un fautore della licealizzazione e non ho pregiudizi verso l’istruzione tecnica e professionale. Sono convinto che nel mondo del lavoro esistano potenzialità educative straordinarie che spesso in passato – e forse anche oggi – abbiamo poco valorizzato o limitato (sbagliando) agli studenti giudicati meno bravi secondo standard davvero discutibili. Il problema – visto in prospettiva educativa e pedagogica – sta nel modo in cui i saperi sono veicolati e fatti propri dall’allievo. Ci sono saperi cosiddetti “tecnici” che possono favorire livelli di coscientizzazione personale molto alta e ci sono saperi “umanistici” che subiscono il logorio della ripetitività e dello mnemonismo. Torno al punto iniziale: tutto è affidato alle mani di governa il processo di apprendimento e di acculturazione e lo sa gestire in modo personalizzato.
Presumo allora che lei abbia qualche riserva sulle procedure di rilevazione di apprendimento. Non ritiene che la qualità dell’istruzione passi anche attraverso un rigoroso monitoraggio degli apprendimenti e del lavoro delle scuole?
Oggi siamo in presenza di un’esagerata fiducia nelle prove obiettive di valutazione. La cultura della valutazione promossa dalle grandi campagne di rilevazione dell’Ocse si è tradotta nel nostro Paese nella convinzione che sia possibile migliorare la qualità scolastica ricorrendo a una massiccia dose di test e quiz di varia natura. Certamente sono stati compiuti in questo campo molti progressi e oggi disponiamo di strumenti più efficaci del passato. Il monitoraggio del sistema d’istruzione nazionale è certamente essenziale, ma dobbiamo stare attenti a non correre il rischio di confondere la rilevazione di un fenomeno con l’automatica soluzione delle criticità che esso manifesta.
E allora cosa propone?
È come se una persona fosse convinta di guarire misurando spesso il proprio stato febbrile. Il miglioramento della scuola può avvenire solo se le comunità degli insegnanti sono in grado di esaminare se stesse e di intervenire là dove si manifestano i punti più critici, se sono capaci di stabilire alleanze educative con la società civile, se creano reti di scuole con cui lavorare superando l’individualismo di scuola, se si va oltre quella specie di nicchia di “socialismo reale” (velenoso frutto sessantottino) secondo cui nella scuola tutti gli insegnanti sono uguali, hanno tutti lo stesso stipendio; e se una buona volta alle scuole è consentito di scegliere i docenti.
Come si conciliano le legittime aspettative di un docente in termini di obiettivi e risultati con il rispetto delle inclinazioni individuali, dell’interesse della persona e in ultima istanza dell’altrui soggettività?
Continua
Bisogna riconoscere che se è facile dire “personalizziamo l’insegnamento” è molto più complesso realizzare un piano di intervento “personalizzato” (che, beninteso, non vuol dire individualistico). Laddove la personalizzazione è in corso d’opera (Australia, Canada, Gran Bretagna, in qualche Stato degli Usa) essa è stata preceduta da molte sperimentazioni e simulazioni e soprattutto da imponenti campagne di formazione dei docenti. Credo che, didatticamente parlando – e cioè sotto il profilo dell’organizzazione delle classi, degli orari, ecc. – già oggi molte scuole italiane del ciclo primario si muovono nel solco della personalizzazione. Più complesso il problema appare a livello di scuola secondaria, ma neppure lì impossibile. Il fulcro della personalizzazione non sta tuttavia solo nelle procedure didattiche, bensì nella qualità del rapporto tra docente e allievo.
Lei allora vuol dire che la personalizzazione non è un fatto di organizzazione? Come riconoscere i “talenti” del singolo per “personalizzare” l’insegnamento?
Dico solo che i talenti (e ogni allievo, anche il meno bravo, è depositario di qualcuno) non si scoprono con un test e neppure si coltivano in modo impersonale. La personalizzazione si svolge insomma nella logica della bottega dell’artigiano e non attraverso la “produzione di massa”.