In tre interessanti articoli pubblicati nelle scorse settimane (ilsussidiario , e ottobre 2010), il filosofo Costantino Esposito ha individuato con profondità di pensiero il problematico statuto dell’identità nella cultura postmoderna e le ambiguità che ne derivano nel modo di pensare la convivenza all’interno della società multiculturale, costantemente esposta alle derive (opposte ma in fondo complementari) del nichilismo e del fondamentalismo.
Ci pare interessante riprendere il discorso dal punto di vista educativo, con particolare riferimento ai processi che interessano in profondità le nostre istituzioni scolastiche. Con i suoi circa 600mila studenti stranieri (a fronte dei 50mila dell’anno scolastico 1995-1996) la scuola italiana presenta infatti uno spaccato significativo del processo di multiculturalizzazione in corso anche nel nostro paese; trattandosi nella maggior parte dei casi di giovani destinati a rimanere da noi, essa costituisce inoltre un significativo laboratorio nel quale possiamo intravedere le dinamiche, le difficoltà e le potenzialità dell’Italia che verrà.
L’attenzione alle differenze culturali si manifesta oggi nella scuola attraverso tutta una serie di pratiche, che mirano opportunamente a potenziare l’accoglienza dei singoli studenti, la conoscenza dei reciproci universi culturali di riferimento, la qualità delle relazioni, la competenza comunicativa, il plurilinguismo. Percorsi spesso di grande efficacia e valore, che chiedono però di essere ricompresi in una visione d’insieme per avere autentico senso educativo e non essere banalizzati come attività collaterali al quotidiano “fare scuola”.
Si sta chiudendo, a nostro giudizio, una prima stagione del rapporto tra scuola e multiculturalità nel nostro paese, quella iniziata negli anni ’80 con l’irruzione dell’“imprevisto migratorio”: segnata da sforzi importanti e generosi davanti a compiti d’integrazione nuovi e impegnativi, ma anche da enfasi e ingenuità nel mutuare acriticamente modelli che un po’ dappertutto stanno ora segnando il passo.
Anzitutto modelli di convivenza nella società plurale e globalizzata: il melting pot americano, l’assimilazionismo francese, il multiculturalismo anglo-olandese (quello che prevalentemente la nostra scuola ha provato a traslare, illudendosi di realizzare facilmente lo slogan “diverso è bello” mediante una semplice giustapposizione delle differenze e la promozione di miriadi di iniziative tese a dar loro visibilità).
Tutte le “ideologie della multiculturalità” sono in affanno nel fronteggiare un processo imponente, in pieno corso, del quale appare difficile scorgere gli esiti: esso chiede di essere conosciuto, interpretato, orientato con audacia e insieme con realismo, sperimentando percorsi adeguati ai singoli contesti che non facciano tabula rasa del portato storico consolidatosi nei secoli e che non siano d’altronde chiusi all’arricchimento culturale e al metissage al quale la storia sembra chiamarci.
Ma il cammino verso una “educazione interculturale critica”, di seconda generazione, passa anche, a nostro avviso, attraverso un ripensamento dei modelli antropologici che in questi decenni sono stati prevalentemente usati come base del lavoro formativo: non di rado si è assistito alla proposta di percorsi didattico-educativi fondati sulla svalutazione della idea stessa di identità (individuale e collettiva), concepita come fattore particolaristico, residuale e in fondo ostativo di una convivenza aperta al dialogo e all’incontro. Come se fosse possibile scoprire in sé e negli altri l’universalità dell’umano senza muovere da quella particolarità personale e culturale che ognuno di noi è.
La “mente monoculturale” viene così considerata come un limite poiché indurrebbe a valutare le altre culture come inadeguate o persino come una minaccia: di conseguenza nelle attuali condizioni sociali occorrerebbe pensare a una “mente multiculturale”, capace di acquisire e gestire una molteplicità di modelli culturali tra loro differenti in termini di credenze, valori, emozioni e pratiche. La sfida del futuro sarebbe perciò formare persone con una mente multiculturale, quelle più adatte a convivere in un mondo pluralista, più tollerante, giusto, libero (cfr. L. Anolli, La mente multiculturale, 2010).
Tale decostruzione dell’identità rischia invece, a nostro avviso, di produrre in campo educativo una autentica eterogenesi dei fini: la convivenza è certamente ostacolata dal porsi di identità chiuse ed autoreferenziali, ma essa non si costruisce “sciogliendo” ogni tradizione per far spazio ad “identità patchwork” o a ciò che è proposto come “valore comune” perché corrisponde al mainstream del momento. Un soggetto anonimo e senza origine, incline al nomadismo esperienziale ed al passing esistenziale, privo di ipotesi culturali da verificare non è maggiormente capace di incontrare realmente l’altro, è semplicemente più manipolabile e massificabile. Al contrario, chi sta conquistando una identità matura è capace di incontrare e riconoscere l’altro, chi è proteso ad approfondire consapevolmente la propria appartenenza tocca prima o poi quell’iceberg nascosto, quella sorgente che costituisce la nostra comune umanità: può riconoscere quel comune “volto umano” su cui si fonda la propria e l’altrui dignità.
La grande questione educativa è allora la tensione a fare scoprire questo livello dell’io, prendendosi cura ad uno ad uno di quei giovani che uno sguardo superficiale potrebbe considerare sempre più omologati e privi di differenze perché tutti distratti dal comune stordimento comunicativo. Si tratta di far scoprire ai più giovani, quale che sia la loro origine, la statura del loro desiderio, di testimoniare loro la bellezza che abita nella realtà e la grandezza che abita nella cultura: ciò inizia ad introdurre nella convivenza scolastica un elemento di simpateticità verso ogni uomo e permette di valorizzare ogni apporto culturale. Nell’ordinario lavoro sulle discipline (e non fuori di esso) è continuamente data l’occasione per fare spazio a quel grido contro il nulla e quella attesa di significato che accomuna chi lavora quotidianamente nelle nostre aule.
La scoperta di questa consanguineità può rendere la presenza dell’altro non appena tollerata, ma pur nella sua intrascendibile differenza, profondamente amica. “Proprio qui – ha scritto M. Borghesi – sta la grandezza di Omero: che Greci e Troiani stanno sullo stesso piano, non c’è alcun razzismo, non c’è nessun giudizio morale per cui gli uni sono superiori agli altri, uno sguardo pietoso abbraccia le vite di entrambi: gli educatori, senza perdersi nei dettagli, devono mostrare questi punti alti della tradizione, narrarli, fissarli come luoghi della memoria, alba di redenzione. Così si contribuisce a formare personalità e a porre le premesse di una civiltà” (Memoria evento educazione, 2002).