Il tramonto dello statalismo scolastico e la vocazione formativa della scuola; il problema di una formazione tecnica e professionale insufficiente, schiacciata dall’educazione generalista; la necessità di potenziare la cultura della valutazione; la strada per una transizione efficace al federalismo scolastico. Sono alcuni degli spunti che emergono da una conversazione del sussidiario con Norberto Bottani, già direttore della ricerca educativa dell’Ocse e ora alla testa dello Sred – Service de la récherche en éducation, del cantone di Ginevra.



I sistemi di pensiero degli ultimi due secoli hanno attribuito alla scuola una funzione decisiva di emancipazione degli individui, di creazione della giustizia sociale e di incivilimento delle società umane. Oggi si ha l’impressione che questi assiomi vengano rimessi in discussione. Qual è la sua opinione in proposito?



L’epoca contemporanea è contraddistinta tra l’altro dalla creazione e dallo sviluppo di un servizio scolastico obbligatorio, pubblico, controllato e pilotato dallo Stato. Gli Stati moderni si sono progressivamente dotati di tutta una serie di servizi pubblici come per esempio i servizi dei trasporti oppure quello sanitario, che nell’insieme compongono quel che si usa chiamare il “welfare state”. Il servizio scolastico è il prodotto di un’operazione pomposamente presentata come un atto di progresso, come un’iniziativa lodevole contro le barbarie, lo sfruttamento e la miseria. All’opinione pubblica, che dopo tutto finanzia con il gettito fiscale queste operazioni, e al personale reclutato per fare funzionare il servizio scolastico si è fatto credere che le politiche scolastiche sarebbero servite ad emancipare gli individui, a correggere le ingiustizie sociali e rendere più civili le società.



Non è così?

Dico semplicemente che è giunto il momento di rileggere queste operazioni per verificare se gli obiettivi con i quali gli Stati moderni hanno venduto ed imposto questi servizi come se fossero una conquista superiore corrispondono con quanto successo veramente in realtà e per conoscere l’origine di queste iniziative, i fattori che le hanno condizionate, le loro radici, le vicende anteriori che le hanno preparate e che hanno modellato la struttura di questi servizi, la quale avrebbe potuto essere anche del tutto diversa da quella che abbiamo sotto gli occhi.

E per quel che riguarda nello specifico l’istruzione pubblica?

Per quel che riguarda l’istruzione pubblica, l’analisi ovviamente deve risalire all’epoca nella quale sono sorte le università, prendere in considerazione quanto successo durante il Rinascimento, rifarsi alle operazioni attuate dagli ordini religiosi, in particolare dai gesuiti all’epoca della Controriforma, considerare i tentativi di generalizzazione dell’alfabetizzazione attuati prima e durante l’illuminismo. Inoltre, questa rilettura non può fare a meno di prendere in considerazione quanto successo con la globalizzazione…

Perché parte da così lontano?

Perché senza questi riferimenti non si potrebbe capire lo straordinario sviluppo dei sistemi scolastici statali nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Questa evoluzione ha indubbiamente favorito l’alfabetizzazione, elevato il livello d’istruzione della popolazione, ma resta ancora da dimostrare che abbia ingentilito gli animi, ridotto la violenza collettiva, corretto le disparità sociali, ridotto le ingiustizie sociali di fronte all’istruzione.

 

Dal suo punto di vista c’è stato un miglioramento nella civilizzazione o no?

 

Le società globalizzate odierne non sono meno inibite di quelle del passato e probabilmente non sono né meno ingiuste né meno violente. Se non ci si lascia accecare dal moralismo e dall’angelismo, si può dubitare che la funzione principale dello sviluppo dell’istruzione statale sia quello di ingentilire gli animi, di diffondere la passione per la cultura disinteressata e la razionalità tra la popolazione, di contribuire a creare una società di amici, fraterna, composta di persone tra loro solidali. Nelle società contemporanee il servizio scolastico è stato lo strumento straordinario di governo della popolazione, di disciplinamento delle masse, di inculcazione di verità acquisite. Gli assiomi ai quali ci si aggrappa per giustificarne l’espansione sono esistiti solo in parte e sono spesso fumo negli occhi per coloro che si dedicano all’istruzione e per coloro che sono obbligati ad andare a scuola. Probabilmente questa è solo una parte della verità, per cui non si può affermare che questi assiomi siano del tutto falsi, tanto più che hanno funzionato a lungo e che continuano ad operare per tutti coloro che sono disposti a crederci.

 

Un pilastro fondamentale dell’ipotesi sopra illustrata, soprattutto in Italia, è stata la centralità della cultura generalista di tipo umanistico, mentre la formazione di tipo scientifico tecnologico collegata al lavoro è stata ed è spesso vista con sospetto per una sua presunta natura “strumentale”, mirante a costruire individui asserviti ad interessi meramente di profitto. Questo pregiudizio continua a circolare, seppure con minor forza, ancora in Italia. Qual è la sua opinione nel merito?

 

Mi sembra strana l’affermazione secondo la quale in Italia la formazione di tipo scientifico e tecnologico collegata al lavoro è stata ed è spesso vista con sospetto per una sua presunta natura “strumentale”. La storia della formazione professionale e tecnologica in Italia merita di essere ripercorsa e forse addirittura riscritta. In ogni modo, mi sembra che si debba risalire fino a Salvemini, ovverossia fino agli inizi del Novecento, poiché è lì che si trovano le radici dei malintesi all’origine di molti problemi di cui soffre la formazione e l’istruzione professionale in Italia. Per altro, se ben ricordo, una delle correnti egemoniche della cultura italiana degli anni 50 e 60 non era affatto diffidente nei confronti della formazione e istruzione professionali, perché propugnava un sistema scolastico nel quale si coltivasse quella che allora si chiamava “cultura politecnica”. La cultura generalista di tipo umanistico era vista con una certa diffidenza, ma anche con una certa ambiguità ed ammirazione dagli esponenti principali della cultura marxista.

  

E cosa pensa della situazione attuale?

Non c’è dubbio che uno dei punti deboli del sistema italiano d’istruzione e formazione sia la formazione tecnica e professionale. Tutte le statistiche comparate internazionali concordano a questo riguardo: da qualsiasi punto si analizza lo stato della formazione tecnica e professionale, l’Italia si trova in coda al treno. Da almeno un ventennio le organizzazioni internazionali che analizzano le politiche scolastiche e di transizione dai sistemi scolastici al mercato del lavoro segnalano ai governi italiani che qualcosa non va in Italia, che occorrerebbe ristrutturare l’intero settore, che la scolarizzazione a spada tratta della formazione e istruzione professionale è un errore, che occorre ripensare l’architettura d’assieme, promuovere la formazione duale o in alternanza tra scuola e lavoro, non per i liceali o gli universitari ma per i minori degli istituti professionali, sviluppare le università tecnologiche o com’è stato fatto in Germania le università di scienze applicate.

 

Che cosa si può fare?

 

Questo è un enorme cantiere che non si può aprire a piacimento o a sprazzi, non è ancora programmato nonostante quella che si chiama pomposamente la riforma epocale dei licei. Il sistema scolastico italiano assomiglia a una grande incubatrice o a un gigantesco posteggio per i giovani, ignora in gran parte l’orientamento scolastico e professionale, trascura completamente la seconda via alla formazione, ovverossia i percorsi scolastici non verticali ma orizzontali che consentono di non andare all’università ma di iscriversi, dopo la maturità o il diploma, ad una formazione professionale, non contempla la complessità dei meccanismi della transizione dalla scuola al lavoro.

 

Nell’ultimo decennio lei ha avuto un ruolo rilevante nel diffondere in Italia informazioni ed interesse sulle valutazioni internazionali, in primo luogo Pisa. Cosa pensa dell’attuale sviluppo in Italia delle valutazioni standardizzate esterne condotte da Invalsi? Quale pensa debbano esserne gli sviluppi nel prossimo periodo?

 

La metodologia delle valutazioni su larga scala dei risultati scolastici ha compiuto passi da gigante in questi ultimi cinquant’anni, da quando nel 1961 si è condotta la prima indagine internazionale comparata sulla cultura matematica. Da allora in poi, i progressi metodologici sono stati continui. Da un’indagine all’altra si sono corretti i difetti, migliorate le analisi, chiarite le procedure. L’indagine internazionale Pisa non è che l’ultimo tassello di questa vicenda la quale non è ancora per nulla conclusa. Nonostante le critiche, le obiezioni, le diffidenze suscitate dagli studi comparati sui risultati dei sistemi scolastici, le informazioni prodotte da questi studi sono talmente originali, uniche, da non lasciare indifferente nessun attore della scuola. Il perfezionamento dei metodi di calcolo nonché l’evoluzione delle attrezzature informatiche rendono possibili in primo luogo verifiche approfondite della validità dei dati raccolti, e in secondo luogo analisi statistiche dettagliate che incrociano tra loro dati di natura diversa, come per esempio quelli forniti dai punteggi nelle prove strutturate di conoscenza e quelli provenienti dai questionari concepiti per gli studenti e gli insegnanti o le famiglie. I risultati e le analisi delle valutazioni non sono perfetti e vanno esaminati, discussi e presentati con cautela, possono e devono essere verificati e contestati, ma nonostante i difetti e le imprecisioni (la cui gravità può essere stimata) aiutano ad esplorare il rendimento della vita scolastica e a rendere trasparenti angoli remoti, finora spesso in ombra, dei servizi scolastici.

  

Ed in questo quadro come si è collocata l’Italia?

Il mondo dalla pedagogia italiana è rimasto fin qui ai bordi di questa vicenda. Per decenni, dagli anni 70, l’Italia ha partecipato alle indagini internazionali comparate dell’Iea (l’Associazione internazionale di valutazione del profitto scolastico sorta nell’ambito dell’Unesco nel 1961 proprio per condurre queste indagini internazionali, ndr) ma non ne ha tratto nessun beneficio, sia dal punto di visto della politica scolastica che da quello della ricerca scientifica nel campo scolastico. Sin dalla prima indagine internazionale dell’Iea alla quale l’Italia ha partecipato, nella prima metà degli anni 70, i risultati dei tredicenni italiani erano scadenti rispetto a quelli degli studenti di altri sistemi scolastici.

 

Come è cambiata la situazione italiana, fino ad arrivare a Pisa?

 

Indagine dopo indagine, nella classifica stilata sulla base dei punteggi medi degli studenti nei test il rango degli studenti italiani non è cambiato gran che. La politica scolastica italiana ha sempre ignorato questi campanelli d’allarme. Quadro sconfortante anche per quel che riguarda il versante scientifico: in Italia i valutatori esperti, con contatti regolari con la comunità scientifica internazionale, in grado di dialogare da pari a pari con i colleghi, sono quattro gatti. Per farla breve si può affermare, senza paura di essere smentiti, che in Italia non esiste finora una cultura della valutazione né del sistema scolastico, né delle scuole, né degli insegnanti, né dell’amministrazione della scuola. Qualcosa di nuovo però è spuntato all’orizzonte con l’ultima presidenza dell’Invalsi.

 

In quali termini?

 

A furia di indagini qualcosa è attecchito e gli ultimi lavori dell’Invalsi sono accettabili. Purtroppo mancano i valutatori professionisti. Valutatori non ci si improvvisa. La formazione è lunga. Non si possono catapultare insegnanti distaccati a pilotare indagini valutative complesse, a costruire test, a analizzare con tecniche statistiche elaborate punteggi delle prove standardizzate e risposte ai questionari. Indubbiamente occorre potenziare l’Invalsi, rivederne lo statuto, farne un centro di ricerca valutativa, reclutare dei professionisti, rendere autonomo l’istituto nei confronti del ministero, come si conviene a qualsiasi centro scientifico. Le indagini dell’Invalsi non sono neutre, come non è neutra nessuna valutazione, sono in bilico con la politica, ma tanto più sono migliori ed utili, quanto più sono solide dal punto di vista scientifico. Le interferenze della politica vanno pertanto isolate.

 

Ma cosa deve fare l’Invalsi?

 

All’Invalsi incomberebbe il compito di valutare l’insieme del sistema scolastico e d’istruzione. Si può e si deve discutere se il campo d’indagine dell’Invalsi debba includere l’insegnamento superiore e l’educazione degli adulti. Questa è materia opinabile, ma è indubbio che l’istituto debba essere in grado di produrre una valutazione globale del servizio scolastico, incluse le scuole paritarie, un po’ come sta facendo con le ultime indagini. A questo proposito vanno promosse, difese e arricchite le indagini nazionali. Non si può valutare un sistema nazionale facendo affidamento soltanto alle indagini internazionali, tanto per intendersi sulle indagini Pisa o le indagini Iea. Queste non sono state concepite per valutare i sistemi scolastici nazionali, ma per altri scopi.

  

Quale pensa debbano esserne gli sviluppi nel prossimo periodo?

Vale la pena segnalare tre punti ai quali prestare attenzione e che non mancheranno di comparire presto o tardi nell’agenda politica scolastica. L’articolazione tra l’Invalsi e le strutture scolastiche regionali. Il federalismo scolastico (che esiste per esempio in Svizzera, in Germania, nel Canada, negli Stati Uniti, in Australia, per farla breve nella maggioranza dei paesi) non esclude affatto la presenza di strutture valutative regionali che dialoghino con quella federale o nazionale che dir si voglia. Viene poi lo sviluppo della valutazione delle scuole che in Italia è ancora del tutto embrionale. E infine lo sviluppo della valutazione degli insegnanti, problema scottante dal punto di vista politico e molto arduo da quello scientifico, ma in questi ultimissimi anni si sono fatti progressi fantastici da questo punto di vista nel campo della ricerca.

 

Ipotizzando che comunque, nel breve e forse nel medio periodo, il sistema scolastico istituzionale possa ancora ricoprire una funzione, quale è la sua opinione sul livello ottimale di accentramento – decentralizzazione che potrebbe garantire ai sistemi scolastici europei ed in particolare a quello italiano efficienza e funzionalità? Quale è il suo parere sull’attuale querelle in atto in questo momento in Italia a proposito delle rispettive funzioni delle Regioni e della Amministrazione Centrale?

 

Non c’è nessun dubbio in merito: la stragrande maggioranza dei sistemi scolastici dei paesi nei quali l’alfabetizzazione di massa è stata precocemente realizzata sono decentralizzati. Questo non è il caso dell’Italia, dove l’alfabetizzazione universale è stata realizzata tardi, solo nel secondo dopoguerra, ossia una sessantina d’anni fa. Il modello scolastico centralizzato all’italiana è un’eccezione ed anche nel prototipo di questo modello, ossia il sistema scolastico francese, è in corso una decentralizzazione progressiva, in parte larvata, connessa da un lato a una ridistribuzione delle competenze alle entità regionali, ai dipartimenti e ai comuni e dall’altro al movimento pedagogico che propugna l’autonomia delle scuole la quale è considerata un fattore di miglioramento dei risultati. Il problema non è tanto quello della decentralizzazione che a mio parere è ineluttabile e ineludibile, ma quello della «rendicontazione» in un regime di scuole autonome.

  

Può spiegarsi meglio?

La legge italiana sull’autonomia delle scuole è molto progressista, ma è stata emanata senza preparazione, senza che siano state predisposte le risorse di supporto alle scuole che sono indispensabile per rendere l’autonomia effettiva. Per altro, la legge italiana è parecchio ambiziosa: da una lato prevede perfino l’autonomia di ricerca e dall’altro è carente su alcuni aspetti cruciali dell’autonomia scolastica come per esempio l’autonomia nella gestione del personale scolastico e quella finanziaria. La decentralizzazione, ma sarebbe forse meglio parlare di federalismo scolastico, può essere attuata senza traumi per le scuole e per gli insegnanti, come è stato il caso in Spagna, un paese dove il sistema scolastico era fortemente centralistico, e dove lo si è decentralizzato progressivamente ancorché in modo assai moderato. Le scuole spagnole fruiscono infatti di minore autonomia delle scuole italiane. Per altro, come già detto, nel mondo funzionano decine di sistemi scolastici decentralizzati. È inimmaginabile oggigiorno ritenere che un servizio nazionale come quello scolastico possa essere governato e gestito da un solo centro. La scuola non è una regia nazionale, ed è inverosimile che una scuola primaria di Bressanone possa avere le stesse esigenze, nello stesso momento, di una scuola primaria di Marsala. Le due scuole sono innestate in contesti ecologici del tutto diversi. Il rispetto dell’ecologia scolastica esige la decentralizzazione.

 

Lei pensa che la decentralizzazione possa essere decisiva per il miglioramento del sistema scolastico italiano?

 

Sarebbe illusorio ritenere che questa strategia sia una panacea che migliori le scuole, il clima delle scuole, le condizioni di lavoro degli insegnanti, i risultati degli allievi. Potrebbe anche succedere il contrario. Questo non è però un argomento sufficiente per rifiutare la decentralizzazione. Per questa ragione però, la decentralizzazione di un sistema scolastico deve essere graduata, vanno cioè previste le necessarie contromisure. Oggigiorno, le analisi comparate delle indagini internazionali indicano che i sistemi scolastici migliori sono tutti decentralizzati e contemplano una forte e reale autonomia delle scuole, controbilanciata però da una serie di contropoteri che equilibrano la decentralizzazione e la regolano, come per esempio la valutazione esterna, la presenza di standard minimi nazionali, ossia di un curricolo nazionale. In ogni modo, questo è un campo di indagine aperto e sarebbe più che mai opportuno che la pedagogia italiana si occupasse di queste questioni in priorità e formiasse ricercatori qualificati in questi settori. In ogni modo, è bene ribadire che non siamo di fronte a una questione di ingegneria sociale ma a un problema prettamente politico, connesso alle trasformazioni profonde delle tecniche di governo della popolazione. Non si governa più un paese con la scuola: questo è un dato scontato. Pertanto, l’occasione è propizia per cambiare i sistemi scolastici. Oggigiorno, il potere politico può fare a meno della scuola per dirigere un paese e quindi può anche permettersi di decentralizzare il sistema scolastico (non di privatizzarlo) e lasciare pertanto alle scuole un’ampia libertà d’organizzazione e di funzionamento.

  

(Tiziana Pedrizzi)

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