Si assiste da qualche tempo ad un dibattito relativo alla possibilità che ha la scuola di accompagnare con efficacia sia alunni con difficoltà sia le “eccellenze”. Si sta lentamente sbiadendo, per fortuna, l’idea di una scuola tarata su un alunno “medio”. Anche la lettura dei dati disaggregati delle prove Invalsi evidenzia all’interno delle singole classi la presenza significativa di alunni deboli e di alunni eccellenti. In particolare, e a ragion veduta, si presta molta attenzione a quelli che vengono definiti alunni con difficoltà (diversi dagli alunni portatori di handicap), a tal punto che è stata emanata una legge (la 170 dell’8 ottobre 2010) che delinea “Nuove norme in materia di difficoltà specifiche d’apprendimento in ambito scolastico”.



Se è vero – come è vero – che la presenza di questi alunni nella scuola è numericamente consistente, sorge il ragionevole dubbio che la funzione educativa e culturale della scuola debba piegarsi maggiormente sui soggetti in difficoltà, rubando spazio ed energie alla promozione delle eccellenze che peraltro permangono anch’esse numerose nella scuola. Sembra che il problema sia però mal posto. La scuola oggi è abitata da alunni con diverse potenzialità che si collocano su un continuum che va da un minimo ad un massimo di riuscita scolastica. Sottolineo: riuscita scolastica. In realtà la scuola ha il difficile compito di risultare un’opportunità per ogni singolo alunno. Non è impresa facile. Le eccellenze stanno strette nella scuola come stanno a disagio gli alunni con difficoltà di apprendimento (spesso determinate da disagi psicologici ed emotivi). Allora che fare? Gettare la spugna?



Provo a modificare i termini del problema. Più che parlare della scuola delle eccellenze e degli alunni in difficoltà tento di parlare della scuola che accoglie e potenzia i talenti. I talenti non sono appannaggio degli alunni eccellenti (potremmo definirli “talentuosi”?); i talenti sono il bagaglio che ognuno porta con sé e che lo costituisce come persona singola e irripetibile.

Ma come può configurarsi una scuola dei talenti? Con qualche stortura si è creduto che per dare spazio ai talenti di ciascuno sia utile ampliare il ventaglio dei campi del sapere che la scuola deve sottoporre agli alunni. Ciò a partire  da un equivoco storico per cui ci sono persone “portate per”, con il dono innato di, e così via, quindi, più sono le discipline che l’alunno può incontrare, più è probabile che trovi la strada per sviluppare le proprie attitudini e le proprie propensioni. Ma attenzione. I talenti non sono legati esclusivamente a campi del sapere.



È significativo che H. Gardner, nel suo testo Cinque chiavi per il futuro (Feltrinelli, 2007), rivisitando la sua precedente proposta delle intelligenze multiple, presenta cinque intelligenze utili per lo sviluppo globale: intelligenza disciplinare, sintetica, creativa, rispettosa, etica. A dimostrazione che le intelligenze multiple (più disciplinari) devono cooperare a sviluppare le cinque intelligenze citate che costituiscono la persona nella sua specificità. È evidente che tali intelligenze non sono elicitate solo nella scuola, ma anche nella scuola in cui fanno da humus perché cresca in ogni alunno l’intelligenza di sé (intus-legere) e l’intelligenza del mondo, come ebbe a definirla Cominelli sulle pagine di questo giornale.

La scuola deve aiutare il ragazzo a prendere coscienza di sé, delle proprie potenzialità e caratteristiche, attraverso la pratica faticosa ma intrigante di misurare sé sulla realtà visitata da punti di vista diversi quali sono le discipline. Perché ciò accada è necessario tener conto degli stili cognitivi centrati e sulle attività cognitive e sulla personalità di cui è dotato ogni alunno, degli stili di apprendimento, delle strategie cognitive e di relazione, delle motivazioni e degli interessi dei bambini/ragazzi. Allora siamo in presenza della scuola della personalizzazione, dell’orientamento, dell’autovalutazione e della valutazione di cui si dà ragione.

Ferran Ferrer, in una relazione tenuta ad un seminario promosso dall’ADI nel febbraio 2010 tratteggia le caratteristiche della personalizzazione educativa. “La personalizzazione presuppone aspettative nuove e diverse: tutti gli alunni possono riuscire. Le aspettative determinate dalla personalizzazione sono diverse rispetto a quelle che i docenti hanno sempre nutrito all’interno della scuola tradizionale.
– La personalizzazione si basa sul principio che tutti sono in grado di imparare. Questo non significa che tutti raggiungeranno lo stesso livello, ma che tutti potranno/dovranno acquisire sufficienti livelli di apprendimento.
– Se si è convinti di questo principio, la questione delle aspettative cambia e diventa fondamentale, poiché gli insegnanti dovranno alimentare attese di riuscita nei confronti di ciascun alunno”.

La funzione orientativa della scuola va rivisitata. L’orientamento non è un’azione appannaggio della scuola che deve aiutare il ragazzo a “scegliere” la scuola successiva, ma è compito della scuola far sì che il ragazzo giunga alla scoperta di sé, della propria singolarità, attraverso sfide culturali e didattiche che accetta e con cui si misura mettendosi in azione. È il ragazzo che si orienta, è il soggetto e non l’oggetto dell’orientamento.

È attraverso operazioni quali dare un nome alla realtà, conoscere e comprendere la realtà attuale e storica (cultura), riconoscere l’altro come opportunità per sé, prezioso, da rispettare, che l’alunno si orienta nella realtà (nel dentro e nel fuori di sé) e quindi costruisce la propria identità colma di alcuni limiti ma anche di grandi potenzialità. Perché accada ciò la scuola deve riconoscere il valore della persona attraverso la promozione di situazioni e contesti in cui l’alunno sia attivo e protagonista. Ma tali processi formativi della persona integrale non si concludono né si esauriscono allo scoccare dei 14/16 anni. Sono “condizioni” perché il ragazzo affronti e attraversi la piena adolescenza con strumenti personalizzati e di presa efficace sulla realtà propria ed esterna; realtà che, negli anni della secondaria superiore, aumenta in quantità di occasioni di scelte e di giudizio.

Riguardo alle pratiche che sviluppano competenze di autovalutazione negli alunni rinvio al dibattito, purtroppo eco lontana, scaturito intorno all’introduzione del portfolio nella scuola in era morattiana. Un dibattito che è stato contaminato da pregiudizi ideologici che hanno impedito di cogliere la portata  formativa dello strumento. Accenno, come spunto di riflessione, alla modificazione che dovrebbe intervenire sulla pratica di valutazione nella scuola che da valutazione dell’apprendimento dovrebbe tradursi in valutazione per l’apprendimento.

La scuola dovrebbe ospitare e far crescere i talenti degli alunni: tutti gli alunni, in varia misura e tipologia, ne hanno. Così ogni alunno dovrebbe poter dire con Shakespeare “non credere che io sia ciò che ero” (Enrico IV) dopo un percorso scolastico più o meno faticoso, ma comunque riconosciuto ed accolto come occasione per la conoscenza del proprio io-in-relazione con la realtà, un io che prende coscienza di sé progressivamente e con connotazioni diverse nei vari livelli di scolarità. Da ciò può scaturire, ed essere sostenuta, la motivazione nell’alunno.

La motivazione è alimentata dall’incontro tra una realtà che si pone e la ragionevole consapevolezza del carico di impegno per comprenderla, operazione che chiede la conoscenza dei propri talenti e delle proprie debolezze. Anche alla scuola il compito impegnativo di far sì che queste ultime non diventino alibi per un disimpegno o una mortificazione. È qui che prende valore la pratica della personalizzazione che – come si è detto – richiede metodologie variegate, rispetto dei tempi dell’alunno, delle attese – da parte dei docenti liberi da schemi – di riuscita nei confronti di ciascun alunno.

Mi piace riportare un esempio tratto da un libro autobiografico di Daniel Pennac che dimostra come l’incontro con un adulto/professore, che “rischia” una proposta “personalizzata” ad un alunno, spalanca in quest’ultimo la scoperta e la messa in scena di talenti in un campo dove fino a quel momento l’alunno aveva raccolto sconfitte.

«Poi venne il mio primo salvatore.
Un professore di francese.
In prima superiore.
Che mi scoprì per quello che ero: un affabulatore sincero e allegramente suicida.
Colpito forse dalla mia propensione ad affinare scuse sempre più fantasiose per le lezioni non studiate o i compiti non fatti, decise di esonerarmi dai temi per commissionarmi un romanzo. Un romanzo che dovevo redigere nell’arco del trimestre, in ragione di un capitolo alla settimana. 

Soggetto libero, ma preghiera di consegnare i miei fascicoli senza errori di ortografia “per elevare il livello della critica”. (Ricordo questa espressione mentre ho dimenticato tutto del romanzo). Questo professore era un uomo molto anziano che ci dedicava gli ultimi anni della sua vita (…). Un vecchio signore di una eleganza desueta, che aveva individuato il narratore in me. Si era detto che, disortografia a parte, bisognava far leva sulla mia propensione al racconto se si voleva avere una qualche probabilità di aprirmi allo studio. Scrissi quel romanzo con entusiasmo. Ne correggevo scrupolosamente ogni parola aiutandomi con il dizionario (che, da quel giorno, non mi ha più lasciato), e consegnavo i miei capitoli con la puntualità di un autore professionista di romanzi d’appendice. Immagino che fosse una storia tristissima, influenzato com’ero allora da Thomas Hardy (…). Non credo di aver fatto significativi progressi in alcunché, quell’anno, ma per la prima volta nella mia carriera scolastica un insegnante mi conferiva uno status; esistevo scolasticamente per qualcuno, come un individuo che aveva una linea da seguire, e che teneva duro. Sconfinata gratitudine per il mio benefattore, ovviamente». (Diario di scuola, Feltrinelli, 2007)

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