La settimana scorsa, presso la Camera dei deputati, la presidente della Commissione istruzione della Camera, on. Valentina Aprea, l’ex ministro Linda Lanzillotta, per l’opposizione, Giovanni Biondi, Capo Dipartimento per la programmazione del ministero dell’Istruzione, Giovanni Cominelli per il Cisem e Domenico Sugamiele per l’Isfol hanno intrecciato una riflessione durante la presentazione del libro di Giacomo Zagardo, ricercatore dell’Isfol, intitolato La punta di diamante. Il testo prende in esame i sistemi scolastici e formativi di tre nazioni “di punta” fornendo alcuni orientamenti comuni per uscire dalla crisi. Abbiamo chiesto all’autore come vede la situazione della scuola in Europa.



Allora, crisi e fallimento della scuola?

Sulla crisi educativa galleggiano pericolosamente molti Paesi (eccetto il nostro, che ormai affonda). Una difficoltà che si manifesta anche nella mancanza di mobilità sociale, non più favorita da una scuola che si scopre meno democratica di una volta, anzi riproduttrice di disparità. Spero francamente che la scuola non debba rimettere il suo mandato all’“istruzione fai da te”, avvicinandosi alle derive dell’homeschooling, così di moda in molti paesi occidentali. Ma si potrebbe dire che qualche preoccupazione c’è, almeno a giudicare dai titoli catastrofici di molti libri, tutti concordi nel riconoscere il declino fisiologico di un apparato giunto alla fine della sua parabola. Di sicuro la scuola ha esaurito il suo scopo, così come è stata pensata e impostata dagli Stati nazionali dell’800 e come la definiva Althusser: un “apparato ideologico dello Stato”. Come ogni crisi, tuttavia, anche questa conterrebbe i germi diun “cambiamento costruttivo”. Alcuni paesi europei avrebbero trovato soluzioni differenti, comprendendo quale percorso di riforma intraprendere. Fanno scelte coraggiose verso mutamenti non più marginali (questi darebbero luogo solo a miglioramenti marginali) perché lo stallo si dimostra strutturale. Forse non basta più discutere sulla punta del fioretto o su quella del cacciavite…



Tre i paesi analizzati nel suo libro. La Finlandia, che sembra avere nelle classifiche internazionali “il sistema scolastico migliore al mondo”, in cosa si distingue dal nostro?

Non mostra apprezzabili differenze qualitative nella preparazione in una scuola del grande centro o della lontana periferia, non insiste sulla competizione in classe (semmai sulla cooperazione e sull’inclusione) e, soprattutto, collega il fattore successo agli elementi “al contorno”del sistema, segno che la scuola si decentra per capire se stessa. Non è più, infatti, il perno della realtà dell’alunno come una volta e, se non può riconquistare gli spazi perduti, almeno comincia a crearsi alleanze fuori del suo mondo. Questo è il motivo, ad esempio, delle robuste politiche scandinave di sostegno alle famiglie, perché i genitori si riapproprino della loro naturale missione educativa; dell’investimento sui servizi alle scuole (biblioteche con sezioni con personale dedicato per l’aggiornamento dei docenti e per le ricerche degli studenti); delle strutture extrascuola per il tempo libero dei ragazzi, con postazioni di studio e tutor preparati a seguirli (ma, qui, i tutor li troviamo anche all’interno della scuola come essenziali facilitatori della personalizzazione dei percorsi). Ed è tanto importante quest’area di confine che, in alcuni casi, è la stessa autorità pubblica a dettare il curriculum nazionale e a predisporre gli obiettivi dell’extrascuola. In tutto questo la scuola finlandese è legata al territorio e percepita come un’istituzione che appartiene innanzitutto alla comunità che serve. Un apporto dal basso che si snoda lungo la linea di una sussidiarietà verticale (lo stesso baricentro del finanziamento pubblico per l’istruzione è passato, da alcuni anni, dallo Stato alle Autorità locali) ma anche orizzontale (i genitori, come nella vicina Svezia, possono mandare gratuitamente i loro figli nella scuola governativa o in quella nata spontaneamente dalla società civile). Qui si realizza quello che Thelot aveva suggerito (senza essere ascoltato) alla sua Francia: “bisogna decentrare progressivamente il sistema per dare responsabilità ai livelli vicini alla soluzione dei problemi”.



 

La Finlandia, però, è lontana…

 

 

Anche se la situazione finlandese è peculiare, perché presenta caratteristiche diverse dalle nostre, la sua esperienza è in certo modo comunicabile per alcuni aspetti, specialmente quando si salda con quella espressa da policy similari presenti in altri paesi avanzati. Nel Regno Unito, ad esempio, si sperimenta un sistema educativo basato sui reali risultati raggiunti e aperto ai contributi della società civile. Basti considerare le nuove Free Schools, nate dall’iniziativa di cooperative di docenti, gruppi di genitori e associazioni non-profit. Dunque, con una libertà (anche pedagogica) dei cittadini di istituire nuove scuole sostenute dallo Stato, di far chiudere le scuole che non funzionano (attraverso le iscrizioni) e di monitorare la leadership educativa. In questo contesto, ogni scuola avrebbe la possibilità di diventare una fondazione, in grado di procurarsi partners efficaci non solo dal punto di vista finanziario ma anche, nell’ottica di una comunità educante vicina al territorio, per la formazione di un “ethos” (progetto educativo) utile al raggiungimento degli obiettivi comuni richiesti dallo Stato e dalla società.

 

Il terzo sistema presentato è quello della Francia che, seppur in ritardo rispetto agli altri due paesi, si sta muovendo per uscire dall’impasse. Quali azioni sta adottando?

 

Partendo dai risultati deludenti nei ranking Ocse e dal numero di abbandoni ancora elevato, negli ultimi anni ha tentato il superamento delle rigidità di un centralismo che oggi appare esasperato. Gli sforzi principali sono stati indirizzati alla flessibilizzazione degli ultimi due anni del Collegio unico (oggetto recentemente di critiche anche dall’Alto Consiglio dell’Educazione francese); altri sforzi sono stati dedicati alle scuole nelle zone deprivate. Ma tali azioni non hanno sempre dato i risultati sperati, pur in presenza di ingenti interventi finanziari da parte dello Stato. Un motivo in più per considerare quanto incidano in tali politiche i fattori di “vicinanza al territorio delle decisioni gestionali”, “riduzione dei vincoli burocratici” e di “apertura alla società civile”, già presenti in collaudate esperienze di promozione di scuole “difficili” in vari Paesi: non solo in Inghilterra (Academies), ma anche in Svezia (Friskolan) e negli Stati Uniti d’America (Charter Schools).

Non a caso queste ultime sono diventate un punto di forza delle politiche di Obama, che ne ha raddoppiato in pochi anni i finanziamenti (Programma Race to the Top). Forse per questi motivi la Commissione Attali, scelta per “dire la verità ai francesi”, ha presentato precise indicazioni riguardanti anche la valutazione dei docenti (Decision 5) e la scelta libera delle famiglie attraverso vouchers (Decision 6).

 

In questo panorama, si individuano tra i paesi di punta alcuni elementi cui attingere e dai quali si potrebbero trarre benefici?

 

Senza voler dare facili ricette, non si può tuttavia negare alcune tendenze in atto e, in particolare: forte valutazione del sistema e delle singole scuole sulla base dei progressi raggiunti; maggiore autonomia delle scuole, anche preparate ad assumere il loro personale con il quale operare un salto di qualità; libertà reale (economica) delle famiglie per la scelta della scuola, anche non governativa, in presenza di standard condivisi e comuni; potenziamento della funzione ispettiva e di controllo da parte dello Stato; lo Stato diventa garante di un processo per evitare lo slittamento verso forme di scolarizzazione autarchiche e senza controllo sociale. Peso crescente degli elementi al “contorno”(aiuti alle famiglie, ma anche extrascuola) su cui investire per permettere che si crei nuova occupazione utile e qualificata.

Dove questo è stato realizzato, i risultati non sono mancati, ma è richiesta un’operazione di vera governance, in cui i diversi attori si muovano sinergicamente per garantire il successo di tutte le persone formate nella scuola e la ripresa della mobilità sociale. Ne risulta che i modelli vincenti siano quelli più vicini al territorio, capaci, quindi, di riconoscerne bisogni e difficoltà e, soprattutto, in grado di catalizzare risorse. Qui, la positiva competitività creata torna a investire tutte le componenti del sistema, anche quella gestita direttamente dallo Stato. Ne è corollario l’allargamento del concetto di “scuola pubblica” e il graduale riposizionamento dello Stato da “gestore privilegiato” al ruolo principale di garante e promotore di qualità.