In questi giorni all’aula della Camera dei deputati è ricominciato l’esame del ddl di riforma dell’università. La situazione è molto confusa e l’incertezza della contingenza politica rischia di pregiudicare l’esito dei lavori parlamentari. Dopo aver apportato alcune modifiche al testo approvato dal Senato, la Settima Commissione della Camera è tornata sui suoi passi ed ha sostanzialmente cancellato proprio quegli emendamenti che avrebbero potuto migliorare una riforma che presenta qualche luce e molte ombre.



Tra i correttivi positivi (attualmente espunti dal disegno di legge) vi erano, ad esempio, la previsione di una via d’uscita dal binario morto degli attuali ricercatori attraverso la messa a bando, appositamente finanziata, di 9.000 posti da associato in 6 anni (se verrà approvata dal Senato la legge di stabilità attualmente in discussione, rimarranno solo 1500 posti da associato); un apposito finanziamento per incentivare l’internazionalizzazione del sistema universitario e in particolare per l’istituzione di insegnamenti o corsi di studio da tenersi in lingua straniera; il ripristino degli scatti di anzianità per docenti e ricercatori; la detassazione e la deducibilità fiscale dei contributi privati in favore delle università statali o non statali legalmente riconosciute, nonché il trasferimento in proprietà dei beni demaniali statali attualmente in uso alle università.



Queste ed altre norme correttive sono cadute nel vuoto, forse per mancanza di una copertura finanziaria o forse perché la stessa maggioranza di Governo pare avere le idee poco chiare circa gli obiettivi che intende perseguire. Ancor più grave che taluni, invece di far valere la forza delle ragioni e il proprio peso politico nei limiti di una dialettica democratica, – come si è visto ieri – scelgano il vicolo cieco della violenza. Tutto ciò è una sconfitta e un pericolo per l’università stessa. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali, infatti, l’università sembra sempre più vissuta come un problema da risolvere e non invece come una risorsa sulla quale investire con coraggio.



Da una parte la fretta di giungere a tutti i costi ad un’approvazione rapida, anche sacrificando contenuti che, fino a qualche settimana fa, erano considerati imprescindibili dagli stessi esponenti della maggioranza, dall’altra i tatticismi dei vari gruppi parlamentari, rischiano di far perdere di vista che la posta in gioco è ben più alta di quel che solitamente si pensa (e va ben oltre la tenuta del Governo) perché ne va del futuro del Paese. C’è ancora qualcuno in Parlamento che ha a cuore l’università?