Che l’attuazione del federalismo scolastico continui ad incontrare resistenze è ormai evidente a tutti: non solo si continua a dilazionare l’attuazione delle nuove competenze che la Costituzione attribuisce alle Regioni dal 2001, ma si è pure in attesa dei decreti di trasferimento delle funzioni e delle risorse umane e strumentali previste dalle Bassanini del 1997.
La proposta di intesa che le Regioni – all’unanimità – hanno presentato allo Stato ancora lo scorso luglio per l’attuazione del Titolo V, con la ricomposizione di funzioni, poteri e strumenti che spettano ai diversi livelli istituzionali, al momento pare avere poche probabilità di successo.
Purtroppo questo ritardo va a scapito dell’ammodernamento della scuola. Come afferma Bottani nella bella intervista del 15 novembre, “il modello scolastico centralizzato all’italiana è un’eccezione” e “le analisi comparate delle indagini internazionali indicano che i sistemi scolastici migliori sono tutti decentralizzati”. Incoraggiati comunque dall’ottimistica previsione di Bottani che vi sia una “ineluttabilità e ineludibilità” della decentralizzazione, può essere utile richiamare l’articolo di Comensoli del 18 novembre sulla scuola trentina per affermare che quell’esperienza, per quanto di per sé efficace ed apprezzabile, non può rappresentare un punto di riferimento comune per il federalismo scolastico italiano, e questo per tre motivi.
1. Innanzitutto il federalismo scolastico riguarda il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative, organizzative e regolamentari, non dei piani di studio. È bene liberare il campo da ogni incubo di balcanizzazione che porterebbe con sé il federalismo scolastico: non vi è alcun tentativo di costituire diversi sistemi scolastici, ma la prospettiva di un sistema scolastico nazionale organizzato a livello regionale. Con il federalismo scolastico resteranno in capo allo Stato i curricola dei diversi ordini di studio, le funzioni di controllo e il sistema di valutazione, i livelli delle prestazioni che le Regioni devono garantire e i principi fondamentali a cui dovranno attenersi le regolamentazioni regionali.
Oggi chiamiamo unitario un sistema centrale che governa strettamente il processo di lavoro delle scuole e offre una mera illusione di uniformità, smentita dai risultati regionalizzati delle indagini Invalsi, Ocse, nonché dagli esiti degli esami di Stato, che mostrano inequivocabilmente l’eterogeneità che caratterizza i diversi territori. Il federalismo scolastico vuole raggiungere un’unità nazionale sostanziale e non formale, basata su pochi, chiari principi comuni, a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, lasciando all’autonomia e alla responsabilità dei diversi livelli istituzionali l’organizzazione del servizio sul territorio.
2. In secondo luogo la scuola trentina è troppo onerosa: portata a livello nazionale sarebbe insostenibile ed ogni tentativo di utilizzare il federalismo scolastico per aumentare la spesa complessiva è destinato a fallire. Un percorso realistico deve lavorare per l’attuazione della decentralizzazione a parità di risorse, con l’obiettivo di aumentare l’efficienza.
Un primo segnale in tal senso potrebbe essere la ridefinizione delle modalità di calcolo dell’organico complessivo che il ministero assegna al livello regionale, con il superamento del tradizionale metodo basato su un “costo storico” per giungere ad uno che si fondi su un “costo standard”. Ciò potrebbe rappresentare una possibilità di rilanciare, su basi diverse, l’accordo tra Stato e Regioni per l’attuazione del Titolo V, che non può prescindere da un coinvolgimento del ministero dell’Economia.
D’altronde oggi non è più sostenibile un meccanismo dove chi programma – le Regioni – non governa le risorse economiche e chi governa le risorse – il Governo – non programma. Le stesse sentenze della Corte Costituzionale confermano l’urgenza di cambiamento: l’ultima sentenza in tal senso, la n. 200 del 2009, ha decretato l’incostituzionalità delle lettere f-bis e f-ter del comma 4 dell’art. 64, della legge 133/2008, che – al fine del contenimento della spesa – mettevano in capo al Governo la definizione di “criteri, tempi e modalità per la determinazione e l’articolazione dell’azione di ridimensionamento della rete scolastica”. Ciò, secondo la Corte, “invade spazi riservati alla potestà legislativa delle Regioni relativi alla competenza alle stesse spettanti nella disciplina dell’attività di dimensionamento della rete scolastica sul territorio”.
Oggi l’organico viene assegnato al livello regionale, basandosi almeno parzialmente sulla programmazione regionale, senza che il ministero stesso possa incidere sulle scelte regionali.
La conseguenza è che le Regioni che oggi operano un dimensionamento corretto della rete scolastica ottengono una riduzione dell’organico, mentre chi disattende gli obiettivi di efficienza viene premiato.
Il federalismo scolastico dovrebbe invece assegnare alle Regioni un organico indipendente dalla programmazione regionale, bensì proporzionato al numero di studenti, eventualmente corretto dalla situazione orografica ed altri variabili sociali, lasciando poi alla loro autonomia e responsabilità la sua assegnazione alle istituzioni scolastiche. In questo modo si stimolerebbero programmazioni virtuose, perché la maggior efficienza ottenuta libererebbe risorse che potrebbero rimanere sul territorio per essere dedicate a sostenere zone da salvaguardare – come le scuole di montagna – o per erogare servizi aggiuntivi.
3. Un ultimo motivo per cui l’esperienza trentina non può rappresentare il modello per il federalismo scolastico, è perché ha utilizzato ancora un modello centralizzato, dove l’assessorato della Provincia autonoma ha preso il posto del ministero. Certo, la sussidiarietà verticale genera comunque ricadute positive: il governo di meno di seicento punti di erogazione risulta comunque più efficace e più vicino ai bisogni reali rispetto al medesimo modello applicato da Roma uniformemente su quasi quarantaduemila plessi. Bisognerebbe però guardare ad altre esperienze europee per una decentralizzazione che porti con sé anche una maggior valorizzazione dell’autonomia scolastica.
In particolare per la questione della selezione e reclutamento del personale vi sono esperienze importanti a cui fare riferimento, prime fra tutte quelle del Regno Unito e del Belgio, ma anche Svezia, Slovacchia, Irlanda, dove sono gli istituti scolastici stessi a selezionare gli insegnanti per le assunzioni, a definire i loro compiti e responsabilità, a disporre delle misure disciplinari nei loro confronti, e perfino del loro licenziamento.
In altri sistemi nazionali la libertà delle scuole è inferiore, ma pur sempre ampia, sia sulle politiche del personale sia per l’utilizzo dei fondi per il funzionamento.
Maggior autonomia scolastica e decentralizzazione dovranno comunque accompagnarsi al loro contraltare, ad un sistema di valutazione esterna centralizzato, di competenza del ministero, che deve in ogni caso mantenere un forte ruolo di verifica dei risultati delle autonomie, anche in collaborazione con i livelli regionali, al fine di garantire un’effettiva unitarietà del sistema scolastico all’interno delle diverse modalità organizzative territoriali.
Poiché maggiore autonomia comporta maggiore responsabilità e quindi la necessità di rendere conto dei propri risultati. Esattamente il contrario della cultura dell’adempimento richiesta oggi alle scuole, le quali non devono rendere conto dei propri risultati, ma di aver correttamente eseguito le prescrizioni ministeriali.