L’Italia ha bisogno dell’istruzione tecnica. Ed aggiungo: anche di quella scientifica. Abbiamo in Italia un gap tra offerta formativa e domanda di tecnici e laureati che blocca lo sviluppo del manifatturiero. L’offerta di diplomati tecnici che era di 140 mila nel 2008 è di 126 mila nel 2010; ma la domanda, che aveva avuto una leggera flessione nel 2009 (per effetto della crisi) è già risalita ed è oggi di 236 mila; detto in breve ci mancano 110 mila diplomati.



L’amministrativo commerciale sfiora la metà dell’offerta ma è in leggero calo nella domanda. E’ in crescita la domanda del settore tecnologico ed in particolare in quello meccanico ed elettrico,  che sono i settori trainanti del nostro manifatturiero. Nelle riunioni con le famiglie uso sempre la metafora delle mani e della testa. Bisogna saperle usare entrambe ma, quando scegliamo la scuola, facciamo una scelta: da dove partire? Dalla mano o dalla testa? La distinzione tra ITI e Liceo è tutta qui. Da dove si parte: da un rapporto di curiosità con l’oggetto o dal gusto per il pensiero? E’ una differenza essenziale e rimangono deficienti, in senso etimologico, coloro che si fermano all’una o all’altra.



Sia che si privilegi il pensiero, sia che si guardi al concreto, si rimane comunque marchiati per la vita. Parlo per esperienza: il mio percorso è iniziato con l’Elettrotecnica del Perito e si è concluso con una tesi di laurea in Fisica (cibernetica) sulla Logica ad infiniti valori. Anche sulle vette del pensiero il mio chiodo fisso era: cosa ce ne facciamo? Chiarito che c’è differenza, bisogna aggiungere che c’è pari dignità, di formazione e di carriera. E allora come e cosa scegliere?

Se pensi ad una vita indipendente, autonoma e produttiva già a 20 anni vai al tecnico. E lo stesso se pensi alla laurea in Ingegneria, perché con le lauree triennali rischierai per sempre un gap formativo di tipo laboratoriale, se non ti sei fatto una buona pratica alle superiori. Se sei orientato all’università (sapendo già cosa vuoi fare) fai il liceo, ma tieni presente che stai scegliendo ora quello che farai a 24/25 anni. Non è vero che la scelta è rinviata e infatti mancano laureati su alcuni fronti (ingegneria, scienze, economia) e ne avanzano (anche a dismisura) su altri (letterario, linguistico, politico sociale). Sono quelli che non hanno scelto a 14 anni e non hanno scelto nemmeno a 19 e sono poi condannati alla disoccupazione o al precariato.



Il cattivo orientamento della TV – Dietro lo sviluppo impetuoso di alcune specializzazioni liceali (linguistico, sociale…) e poi delle corrispondenti università (lingue, scienze dell’educazione, scienze della comunicazione) c’è il modello falso secondo cui andare al liceo vuol dire fare un salto sociale: fabbrica è brutto, servizi e libera professione è bello. E’ bello viaggiare, è bello non scegliere, è bello vendere, è bello il Grande Fratello. In fabbrica ci si sporca, in fabbrica si fa fatica, in fabbrica si guadagna poco, in fabbrica non si fa carriera.

 

Si tratta di un senso comune secondo cui la prospettiva di vita è quella di fare il calciatore se sei un uomo e la velina se sei una donna. Con questo modello non solo non funziona l’ascensore sociale ma si fa del male a quel po’ di sistema Italia che combatte la sua battaglia in Europa e cerca di competere, nel settore manifatturiero, con la Germania.

Il cattivo orientamento della scuola media – Tutti i miei docenti delle aree di indirizzo si lamentano dicendo che di anno in anno l’utenza è in peggioramento. Eppure ricevono alunni scremati da quelli del biennio che sono ancora più drastici. E’ vero in parte nel senso che, per effetto della scolarizzazione quasi totale, viene a mancare, in una parte degli studenti, l’aspetto motivazionale: vado a scuola perché ci devo andare; la scuola non è poi così importante; nel pomeriggio ho gli allenamenti; nel pomeriggio ho gli amici… Ma c’è un altro aspetto seminato a piene mani da chi si occupa di orientamento: se sei bravo devi fare il classico, se sei un po’ meno bravo lo scientifico di prestigio, se no quello di rango inferiore e via via sino al professionale.

Poi c’è la gerarchia dei licei, poi c’è l’idea che le donne non sono fatte per la tecnica e, nell’ambito della tecnica, le donne faranno ragioneria e i maschi faranno perito. Sono reduce da una visita in Ferrari e ho visto, in produzione, oltre che nel management, tante giovani donne. Per remare contro il Club dei 15 sta sviluppando il Progetto Rosa per convincere le ragazze a non credere alle favole e diventare protagoniste del proprio futuro. Nella gerarchia delle scuole con il liceo in paradiso e l’Ipsia o i Cfp all’inferno, l’Iitruzione tecnica sta in Purgatorio. Su questo fronte si sposano i messaggi distorti da parte delle scuole e la pulsione delle famiglie verso un’indistinta e sognata crescita sociale (regolarmente individuata nel liceo).

Così il serpente si morde la coda, il livello del Tecnico si abbassa perché arriva una percentuale alta di giovani demotivati e sui quali il fallimento è già stato impostato alla scuola media e nelle famiglie quando è scattata la funzione "redentrice" del liceo. Non se ne esce se le forze sociali che operano fuori dalla scuola non si fanno carico di presentare alle famiglie i bisogni del territorio, la sua struttura produttiva, le caratteristiche delle figure professionali richieste. Faccio un esempio con le lingue straniere: ne servirebbero almeno due in ogni scuola. Ai nostri periti servirebbero l’inglese ed il tedesco. Attenzione: più lingue per tutti e non più liceo linguistico. Cosa vieta di fare bene tre lingue nel tecnico di finanza e marketing e nel contempo dare competenze spendibili in ambito professionale?

Oggi l’esubero di offerta di laureati in lingue è di 7.000 unità all’anno. In effetti il corso di Lingue è una specializzazione nell’ambito della facoltà di Lettere e chi opera sui mercati dell’Est negli impianti o nella meccanica fine, in competizione con la Germania, vuole tecnici che sappiano anche decodificare i manuali e comunicare in lingua ma possiedano competenze tecnico-scientifiche. Fino ai primi anni ’70 l’Italia ha avuto una formazione tecnica di altissima qualità e fortemente innervata con il mondo delle imprese attraverso i Consigli di amministrazione. Gli istituti tecnici negli anni ’60 erano addirittura a numero chiuso perché i posti erano commisurati alla necessità di fare della didattica laboratoriale all’altezza del compito (macchinari, qualità dei docenti).
Con la scusa della democratizzazione dei decreti delegati si è perso tutto ed è iniziato un lento declino che, alla fine, si è tradotto in mancanza di appeal.

 

Come se ne esce? Il rilancio si deve fondare su alcune leve:

– un ritrovato rapporto con il mondo delle imprese piantandola con le frasi fatte del tipo "c’è il rischio di privatizzare la scuola"; il rischio vero è quello di parlarsi troppo poco;

– un ritrovato orgoglio della formazione tecnica, stimolando la valorizzazione del merito attraverso strumenti premiali di vario tipo (dalle borse di studio, alle esperienze in azienda, alla gestione del placement dei diplomati);

– la costruzione di identità forti da parte dei diversi istituti, che si caratterizzino attraverso il rapporto con il territorio e l’attenzione alle curvature nella offerta formativa, la costruzione di associazioni di ex alunni con cui si può operare in partnership sia sul terreno del placement sia su quello della alternanza scuola-lavoro; 

– la realizzazione di esperienze di governance di nuovo tipo con un peso maggiore del DS (autonomo e responsabile) e con forme di organizzazione interna  basate su responsabilità certe e retribuite; su questo punto la palla è nelle mani della politica ed intendo occuparmene in maniera più analitica con proposte specifiche, parlando anche del valore e dei limiti di CTS e dipartimenti che Governo e Parlamento hanno lasciato a livello di buoni propositi facoltativi;

– un impegno serio nell’applicare gli aspetti innovativi della riforma, che sono pochi, ma ci sono; mi riferisco alla progettualità didattica costruita a partire dalle competenze in uscita, al modello 2+2+1 (e qui mi interessa quell’1 relativo all’ultimo anno), all’applicazione delle percentuali di personalizzazione dei percorsi riferiti al 20% di autonomia e al 30/35% di flessibilità;

Se si lavora bene i risultati arrivano sia nel numero di iscrizioni sia nei posti di lavoro per chi si diploma e i risultati sono l’unica soddisfazione per chi, nella scuola, continua a tirare la carretta con impegno.