Governance degli atenei, problema dei ricercatori, razionalizzazione dei corsi di laurea, sistema di valutazione: Massimo Marrelli, docente di scienza delle finanze e rettore dell’Università Federico II di Napoli, interviene sul ddl Gelmini parcheggiato in commissione, in attesa che si trovino i soldi e, non ultimo, di sapere quali saranno le sorti del governo.
«Io mi auguro che si trovi una soluzione in tempi rapidi – dice Marrelli – e che venga approvata. Ha elementi positivi e negativi, come tutte le riforme. Però qui mi preme sottolineare due vantaggi: da un lato affronta finalmente il problema della governance delle università, e quando parlo di governance mi riferisco ad un sistema che permetta di decidere sì in maniera democratica, ma di prendere decisioni. L’attuale sistema è così complesso e stratificato a diversi livelli che è veramente difficile arrivare a decisioni in tempi brevi, e non di parte».
E ora invece?
«Il modello Gelmini separa tra chi decide nell’interesse dell’università e i portatori di interesse nell’università».
Approva dunque che il nuovo modello di governance apra l’università agli stakeholder esterni?
«La definirei un’opportunità. Vede, oggi “stakeholder” è una parola che significa tutto e il contrario di tutto. Si fa presto a definirli portatori di interessi, ma dipende molto dal contesto in cui si opera, perché se i portatori di interessi vengono identificati con lobbies, gruppi di pressione, rappresentanti politici di parte, allora questo per l’università è pericolosissimo. Se invece sono i membri della comunità scientifica internazionale, allora l’ingesso degli stakeholders è una grossa opportunità».
Lei chi farebbe entrare, professore?
«Io chiamerei nel Cda ricercatori internazionali, veri portatori di interesse nella ricerca e nella didattica. Che poi ci siano rappresentanze del mondo imprenditoriale e istituzionale, mi sta anche bene, ma l’importante è che non siano in maggioranza».
Ma l’università secondo lei è attrezzata per operare al meglio queste scelte?
«Io credo che la riforma lasci molto alle singole università, quindi sarà decisivo che noi attori ci comportiamo in maniera virtuosa. A mio avviso nel senato accademico non c’è una rappresentanza adeguata dei ricercatori e dei professori associati. È una rappresentanza importante, ma capisco anche il rischio di creare assemblearismi e di violare i principi di governance. Ripeto, il giudizio che do sulla governance è positivo, purché lo sappiamo utilizzare in maniera corretta».
E sui ricercatori? L’emendamento è stato quello che all’ultimo ha fatto saltare la riforma.
«Il problema dei ricercatori è molto serio. Per anni siamo andati avanti ad alimentare il bacino dei ricercatori universitari con troppi immissari e con nessun emissario o quasi, nel senso che i posti per ordinari o associati erano molto, troppo ridotti in numero. Questa situazione è poi aggravata dal fatto che dal 1980, cioè dalla legge 382, i ricercatori universitari aspettano uno stato giuridico. E comunque questo è solo un aspetto di un problema di funzionalità assai più ampio».
A cosa si riferisce?
«Non molti sanno che esiste una legge del 2009 che impone dei limiti all’assunzione di ordinari e associati rispetto a quella dei ricercatori: per ogni ordinario che assumo devo bandire sei posti di ricercatore. Poiché questi ultimi non sono assunti con compiti didattici ma per fare ricerca, questo fa sì che quando i primi vanno in pensione, io debba sostituirli con persone che quest’obbligo non hanno. Sostenere l’offerta formativa diventa molto complicato».
Dunque lei si augura che la copertura venga trovata?
«Assolutamente sì. Si tratta non di fare un’ope legis, ma di dare una chance a coloro che avendo fatto ricerca per un certo numero di anni, possono concorrere con un concorso serio, selettivo, alla fascia degli associati. Questo mi pare il nodo cruciale».
Un altro aspetto riguarda la razionalizzazione dei corsi di laurea. Il ddl vi mette mano nel modo giusto?
«Una razionalizzazione è necessaria, perché c’è stata negli anni passati una cattiva interpretazione del principio di autonomia. Io l’enfasi non la porrei tanto sul numero dei corsi di laurea. È vero, va ridotto, ma da un punto di vista quantitativo non è di molto superiore a quello che avevamo quando c’era il vecchio ordinamento. Il vero problema è la proliferazione degli insegnamenti e dei moduli. È questo ad aver ridotto la qualità della didattica. Io per esempio alla Federico II sto proponendo di tornare agli insegnamenti annuali, eliminando i semestrali e i moduli. Ne va anche dei tempi di apprendimento».
Il sistema di valutazione, basato sulla centralità dell’Anvur, funzionerà a dovere?
«Mi auguro di sì. È evidente che il sistema di valutazione dev’essere centralizzato: non va molto bene che nel nostro paese la valutazione non avvenga tenendo a distanza di braccio il valutato dal valutatore. Ancora però non basta: per funzionare e indurre a comportamenti virtuosi occorre che un sistema di valutazione sia da tutti condiviso».
Cosa pensa della non molto lusinghiera posizione degli atenei italiani nelle classifiche internazionali?
«Quello che da noi è più carente e che ci porta in basso a mio modo di vedere non è tanto la produzione scientifica. Le valutazioni computano tre aspetti: la produzione scientifica, l’efficacia della didattica e l’offerta di servizi. La nostra offerta di servizi è molto bassa, per esempio la Federico II non ha alloggi per gli studenti. E poi l’efficacia della didattica: in Campania la Federico II ha più di 90mila iscritti, nelle altre sei università della regione il numero di iscritti non arriva a 10mila. Lì nasce il problema, perché se ho un’aula con 450 studenti, lei capisce che l’efficacia della didattica è fortemente penalizzata. Con gli altri rettori della Campania abbiamo firmato un protocollo d’intesa per realizzare un sistema universitario integrato. Speriamo che il ministro ce lo firmi».
Didattica e servizi a parte, le nostre università soffrono di un forte deficit di internazionalizzazione.
«Le parlo della realtà che conosco. Nella Federico II abbiamo tre corsi di laurea che si tengono in inglese e sono quelli che attirano i 400 studenti stranieri che sono da noi con il programma Erasmus, ma quando esce su Der Speigel una copertina con gli spaghetti e la pistola sopra, occorre rendersi conto che non è una buona pubblicità. Non parliamo dello spettacolo offerto dalla spazzatura nelle strade. A questo va aggiunto che le facoltà umanistiche non sono comprese nelle banche dati di lingua anglosassone, sulla base delle quali vengono fatte le classifiche. La realtà finale è dunque un po’ distorta».
Qual è il suo auspicio?
«Che venga fatto un buon uso delle risorse. Per anni in Italia c’è stato un patto implicito tra lo Stato e le pubbliche amministrazioni: ti do poche risorse ma non ti chiedo cosa ne fai. Questo non è più possibile: dobbiamo esigere nella maniera più assoluta che ci si chieda conto di quanto spendiamo, fino all’ultimo euro. Ma una volta che un progetto viene approvato, sia finanziato per intero».