Sono stati presentati i dati dell’indagine Come e quando i diplomandi scelgono l’università condotta da Paolo Trivellato, del dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca su 24 scuole lombarde e 871 studenti nei mesi di aprile e giugno 2010. Obiettivo: misurare con accuratezza il processo di scelta degli studi universitari da parte degli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori.



Solo 1 studente su 5 dichiara di riflettere a fondo sulle proprie caratteristiche, capacità e vocazioni, mentre 3 su 4 dichiarano di farlo con un impegno medio.

Il 49% degli studenti ha una capacità media di sfruttare i canali a propria disposizione per informarsi sulla rosa delle opzioni disponibili; questo significa che le notizie raccolte sono generiche e poco utili a compiere una scelta consapevole.



Tuttavia, nonostante le informazioni raccolte a monte siano, in moltissimi casi, generiche e sommarie, il 61% del campione si sente confermato rispetto alla scelta compiuta. 

Per decidere, gli intervistati si confrontano soprattutto con gli amici (60%). Un buon ruolo lo esercitano anche i genitori, per le donne più che per i maschi (62% contro 58%). Il confronto con gli insegnanti riscuote un interesse minore, che giunge solo fino al 47%. Soprattutto i liceali sembrano decisamente farne a meno, mentre gli studenti con nessuno dei due genitori laureati o diplomati dimostra una maggiore propensione a tenere il loro parere in considerazione, fino al 45% degli studenti degli istituti professionali. Brochures e guide dello studente arrivano solo al 30% ed al 52%, mentre più fortuna riscuotono gli Open Day dell’Università, anche perché i diplomandi vi vengono portati dalla scuola.



Fra i corsi di laurea preferiti vi sono quelli del gruppo medico (22%) seguiti, a 10 punti percentuali di distanza, dal gruppo economico-statistico (12%), da quello letterario (11%) e giuridico (8%). Ingegneria è al 6% e architettura al 5%.

Le lauree del gruppo medico sono scelte in maggioranza dagli studenti dei licei con un 24%, mentre gli studenti degli istituti tecnici si orientano verso i corsi del gruppo economico-statistico (26%) e quelli degli istituti professionali si distribuiscono tra i gruppi economico-statistico (14%), architettura e politico-sociale (12%).

Lo stesso trend viene segnalato per le superiori da una ricerca Cisl sugli iscritti effettivi alle prime classi di questo 2010. Lievitano i licei, soprattutto nella versione light delle scienze umane, continuano a retrocedere tecnici e professionali (anche se la ricerca non include i corsi regionali, che invece sono in ascesa). Domanda: ma perché questi dati vengono dalla Cisl e non dal Ministero?

 

Deviens ce que tu es, “diventa ciò che sei” è stato il logo delle campagne condotte negli ultimi anni nella scuola sul terreno dell’orientamento. Visione alquanto “parmenidea” dello sviluppo degli esseri umani e perciò alquanto statica, ma soprattutto molto poco centrata sull’incontro con la realtà. Quasi che i problemi fondamentali di mancato orientamento fossero quelli del mancato riconoscimento delle forti vocazioni di individui piegati e costretti da imposizioni familiari di tipo utilitaristico: artisti potenziali obbligati a diventare ragionieri… Ma è realistico pensare che l’orientamento sia solo un problema di maieutica? Scoprire dentro di sé la profonda vocazione che, qualora fedelmente seguita, ci renderà felice?

 

In Italia l’orientamento non è sbagliato, anzi è di una precisione prussiana. L’indagine Pisa – in particolare per quanto riguarda i dati delle regioni che sono state analizzate più da vicino, quali la Lombardia – dimostra che c’è una corrispondenza perfetta fra la collocazione economico sociale dei quindicenni per come la si  deduce dalle loro risposte al questionario di accompagnamento, ed il livello delle loro prestazioni. Prima vengono gli studenti con la collocazione più alta, che vanno ai licei e ottengono i migliori risultati, poi quelli degli istituti tecnici, dai risultati e dallo status sociale intermedio, e da ultimi quelli dei professionali, che evidenziano risultati bassi coerenti con il livello socioeconomico basso. Una gerarchia perfetta.

In altri Paesi, come la Svizzera tedesca, in cui le scelte vengono fatte a 11 anni, si trovano delle eccezioni – cioè alti livelli di apprendimento – anche nei corsi in cui il livello generale delle competenze di base è generalmente più basso. In Italia no. Per cui il problema non sembra consistere tanto nell’analizzare ancor meglio le vocazioni personali, ma nell’innalzare il livello di tutti, magari con modalità differenziate.

Soprattutto però la questione cruciale sembra essere quella di informarsi sulla realtà. Mentre le statistiche ci parlano di coorti imponenti di giovani che languono nell’attesa del lavoro, le stesse statistiche ci parlano di fior di lavori nel campo dell’artigianato e della produzione industriale che o spariscono, o vanno a pescare fuori confine le necessarie “risorse umane”, come si usa dire. Nel frattempo i giovani italiani sembrano tutti colti da vocazioni “umanistiche” o paraumanistiche oppure spinti da interessi economico-finanziari.

Forse sarebbe opportuno riflettere sul fatto che le vere prepotenti vocazioni e predisposizioni sono rare, anche quelle del campo delle scienze umane e sociali, e che, soprattutto, non vanno confuse con l’aspirazione a sottoporsi ad impegni di studio apparentemente più leggeri.

 

Negli altri casi è opportuno che anche i giovani italiani, ed in primo luogo i loro mentori, facciano un esame di realtà, considerino con maggiore umiltà sociale mestieri e professioni di persistente interesse, prima di lasciarli ai giovani di altri Paesi. Movimenti di declassamento sociale sono alle porte nel nostro paese e non solo per colpa degli arzilli sessantenni che non vogliono mollare la presa.

Il primo problema dell’orientamento, ora, probabilmente quello di offrire a chi deve scegliere informazioni realistiche su ciò che può aspettarsi nel futuro della propria vita dalle sue scelte.

 

 

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