Il 44° Rapporto Censis conferma che nel nostro Paese esistono già 2 milioni e 200mila né né:  giovani tra i 15 e i 34 anni che non hanno lavoro e non intendono mettersi in gioco per trovarlo. Allo stesso tempo diminuisce la capacità imprenditoriale di provare un lavoro in proprio.
Sintomi che De Rita ha letto come “un’Italia priva di desiderio” dominata da atteggiamenti adattativi e senza profondità di memoria e di futuro. Una débacle della capacità di generare cultura piuttosto che benessere, una sconfitta sociale piuttosto che economica.



Nella società in cui viviamo, segnata da mezzi sovrabbondanti e fini incerti, i giovani dispongono di un numero enorme di opportunità, la cui ricchezza ci fa capire quanto la crisi esprima innanzitutto povertà immateriale prima ancora di divenire materiale. La crisi, infatti, investe anche coloro che sono ben al di sopra della soglia della povertà economica e, ora, non risparmia neanche il ceto medio. Nonostante mezzi di partenza e opportunità superiori al passato i giovani, “narci-cinici e individualisti”, non riescono a costruire un progetto stabile di vita, entrando presto nel tunnel dell’incertezza e della paura. Manca “vigore” perché è carente lo spessore intellettuale e progettuale. Evidentemente, scarseggiano o sono soffocate le fonti di produzione di questo spessore.
In questo contesto il desiderio è “ridotto a sentimento” e non ha più la forza di sostenere un impegno duraturo: una responsabilità, nella vita come nel lavoro. Forse, parlare di decadenza è prematuro ma i sintomi di disfacimento o di “mucillaggine”, per dirla con De Rita, si vanno addensando.



Non è dato prevedere con certezza quali vie di uscita potrebbero rilanciare una crescita reale del Paese in questo contesto. Certo è che sarebbe di aiuto una classe politica in grado di elaborare una vision. Fin quando è stata illuminata dall’azione includente della società civile, la politica ha potuto indicare dove orientare gli sforzi. Lo ha capito bene, ad esempio, la giovane classe dirigente inglese concentrando l’attenzione dell’opinione pubblica sulle potenzialità della “Big Society”. Dunque, una politica “facilitatrice”, che fa cultura per aprire la strada alle forze costruttive del paese. Una sistema in grado di promuovere le esigenze prioritarie di sviluppo senza far cadere altri legittimi diritti. Sempre secondo il Censis, nuovi spazi andrebbero affidati al non profit, all’impresa sociale, al volontariato, mentre occorrerebbe una nuova alleanza tra economia competitiva e produttori di bene sociale.



Ripartire dal singolo, come vorrebbe De Rita, per ricostituire un senso di responsabilità sfaldato e perimetrale, è opportuno cominciando dalle generazioni più giovani. Occorre, però, una scuola meno distante dai processi di crescita culturale ed etica: in grado ancora di far passare il testimone del “desiderio” dai genitori ai figli, senza dispersioni o attese inerti. Se non si interviene presto in campo educativo, la nostra società rischia di fare la fine degli Immortali di Borges: eretta la migliore delle città possibili, giudicando vana ogni impresa ne dimenticano la bellezza per andare a vivere nell’inedia fuori di essa. L’unica strada per uscire dalla complessità è, invece, la restituzione di un senso che va trovato proponendo nuovi modelli di governance dell’education, lontani da quelli centralistici e burocratici dello status quo.

La scuola è valida se dà senso, se offre criteri per interpretare l’esistenza, se mette in contatto con la cultura di cui si sostanzia; come spesso risulta dalle pratiche esistenti in altre nazioni, deve essere più vicina alle esigenze delle comunità cui appartiene. Lentamente, in altri paesi si fa strada l’idea che senza il rapporto vitale di una comunità educante, costituita dal basso, l’ordine fisso di organizzazione scolastica si riduca a un “inverno artico”, adeguato habitat per fenomeni di disimpegno e di degrado.

Anche la società civile viene chiamata a contribuire a innalzare gli standard e a sviluppare l’ethos. L’“ethos”, nell’esperienza scolastica anglosassone e scandinava, acquista importanza strategica perché si riferisce a come l’istituto s’interfacci con la comunità che serve. Così, la scuola dà senso all’insieme degli apprendimenti, organizzati attorno a un progetto culturale, professionale, spirituale, ideale che sia leva per motivare il ragazzo a costruire le basi del suo rapporto con se stesso e con gli altri; prepara, infine, i giovani, all’interno di un contesto coerente, ad assolvere i propri compiti futuri, nella vita come nella professione. Si capisce, qui, quanto perda di significato la distinzione tra statale e non, relegando il pericolo principale – la mancanza di senso – ad argomento secondario e pleonastico.

Avvicinando l’istruzione alla comunità educante, il modello di engaged institution, produttore, secondo Akerlof, di “categorie sociali scolastiche”, aumenterebbe il “capitale sociale” della comunità alla quale la scuola appartiene e contribuirebbe ad arginare atteggiamenti antisociali all’interno della stessa scuola. La qualità della scuola e i risultati degli studenti dipenderebbero, dunque, da quanto i giovani alunni diano valore e aderiscano alle sue finalità peculiari. Come già rilevato in Francia dalla Commissione Pochard sull’evoluzione del mestiere dell’insegnante, si nota sempre più frequentemente la presenza di un “effetto scuola”, almeno altrettanto determinante per la riuscita degli allievi quanto l’“effetto insegnante” e l’“effetto classe”.

 

 

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