Venerdì 10 dicembre è comparso su Repubblica.it un articolo di Salvo Intravaia, intitolato “Nella scuola pubblica si impara di più. L’Italia in basso per colpa della private”, con un sottotiolo che recita “La lettura approfondita dei dati resi noti qualche giorno fa dimostra che senza le paritarie il nostro Paese scalerebbe le tre classifiche (matematica, lettura e scienze) anche di dieci punti”.



In occasione di Pisa 2006, lo stesso autore era stato solo di poco più lento, e infatti “Indagine Ocse-Pisa boccia senza appello gli istituti non statali” comparve sull’edizione cartacea l’11 dicembre 2007. Fa piacere vedere che oltre alla preparazione dei quindicenni italiani, sono migliorati anche i tempi di reazione dei giornalisti di Repubblica, anche se permane la difficoltà di comprensione del testo scritto (le scuole paritarie sono tanto pubbliche quanto le scuole statali, e le scuole private, che non sono comprese nel campione dei quindicenni Pisa, sono altra cosa), e anche l’originalità zoppica, dato che, ad esempio, il giudizio di Ocse sugli “istituti privati” era e resta “impietoso”.



Vediamo allora di fare alcune precisazioni (peraltro già inviate a Repubblica in occasione dell’articolo del 2007, e mai pubblicate), che riguardano la generalizzabilità dei dati sulle scuole paritarie, gli esiti da esse ottenuti e l’influenza che esercitano sui risultati complessivi della scuola italiana.

1. Nel campione di Pisa, vedi pag. 224-226 del volume IV, la variabile “scuola pubblica/scuola privata” comprende due tipi di scuole: quelle che ricevono il 50% o più dei fondi necessari al loro funzionamento (government dependent private schools) che in Italia sono i CFP, nel nostro caso 30, e quelle che ricevono meno del 50% (government independent private schools, che in Italia sono le scuole paritarie e quelle private, che però non facevano parte del campione di Pisa. Il numero di rispondenti per tipo di scuola non era tenuto sotto controllo, e infatti per le independent varia da 26,7% del Giappone a 1,5% del Lussemburgo, o addirittura manca anche perché nella maggioranza dei paesi Ocse questa tipologia non esiste.



Le scuole paritarie intervistate in Italia (che facevano parte del campione nel suo insieme e non costituivano una tipologia particolare) sono state in tutto 31 su 1062 (2,9%), e cioè 21 licei su 426 (4,9%), 5 professionali su 225 (2,2%), 4 tecnici su 315 (1,3%): un campione non rappresentativo per misurare la variabile “performance studenti che frequentano scuole non statali paritarie rispetto a quelli che frequentano scuole statali”, variabile non prevista dall’impianto dell’indagine. Gli studenti della scuola statale sono stati il 94,7%, quelli delle private finanziate (CFP) l’1,9% e quelli delle indipendenti (paritarie) il 3,3%.

 

2. Una volta chiarito che il campione non è, e non voleva essere, rappresentativo per la distinzione tra scuole statali e non, resta il fatto che tra scuole statali e scuole paritarie (almeno per le scuole indagate, di cui nulla sappiamo: e se fossero tutte nelle regioni in cui i punteggi sono inferiori?) c’è una differenza di punteggio che sarebbe sciocco negare, ma non pare drammatica, in quanto è contenuta fra 11 e 27 punti (mediamente intorno al 3%), che non è una differenza statisticamente significativa. Ma soprattutto non si possono paragonare due cose non paragonabili, come detto al punto precedente. Intravaia, che giustamente sottolinea i miglioramenti delle scuole statali, afferma però che “le private, nonostante i finanziamenti, invece crollano”, il che è falso: guadagnano otto punti in matematica, tredici in scienze e dodici in lettura.

  

3. Quanto all’osservazione che “Private, in Italia le peggiori d’Europa… nella maggioranza dei Paesi, invece, il privato alza il livello medio… Meglio studiare nella pubblica”, sarebbe opportuno ricordare che nel resto dell’Europa, tranne la Grecia, le scuole non finanziate dallo Stato sono “private” in senso stretto, perché la “normale” scuola privata viene regolarmente finanziata dallo Stato: hanno quindi rette molto elevate e poiché il punteggio Pisa è proporzionale allo status, ne consegue che hanno verosimilmente punteggi più elevati delle scuole statali o private finanziate. I dati “imbarazzanti” degli studenti delle scuole finanziate dallo Stato lo sono, imbarazzanti, ma per una ragione ben diversa da quella ipotizzata dall’autore: sono infatti riferiti ai ragazzi dei CFP, e denunciano non un ipotetico fallimento delle scuole private, ma l’incapacità del sistema formativo italiano a fornire ai ragazzi delle fasce più deboli una buona qualificazione di base.

 

4. Infine, è assolutamente scorretto affermare che i punteggi delle scuole paritarie (da cui restano esclusi i CFP) sono responsabili dei bassi punteggi ottenuti dall’Italia: il numero di risposte relativo alle scuole paritarie non è in grado di influenzare significativamente i valori medi. Non si può usare surrettiziamente questo dato per affermare che va ulteriormente contrastato il già sistematicamente negato diritto di scelta dei genitori (quasi il 20% dei genitori che iscrive il figlio alla scuola statale afferma di aver pensato alla scuola paritaria, ma di averla scartata perché non se la può permettere, o perché dovrebbe fare dei sacrifici), e non si può straparlare di finanziamenti alla scuola paritaria come lesivi della qualità della scuola statale. I dati relativi ai costi dei ragazzi nell’uno e nell’altro sistema sono noti e ampiamente accessibili, non solo per il segretario della Cei, ma perfino per i giornalisti di Repubblica, sol che si vogliano cercare, così come i dati relativi agli apprendimenti della scuola paritaria in un campione questo sì rappresentativo, come quello dei test Invalsi di terza media, che mostrano esiti assai diversi da quelli di Pisa.

 

Non si tratta di fare una difesa d’ufficio della scuola paritaria e del suo essere parte di quella libertà di scelta che la maggior parte dei paesi europei, e lo stesso Parlamento europeo, considera fondamentale fra i diritti di cittadinanza, ma di notare con forza che certamente un atteggiamento così polemico e con una così forte pregiudiziale ideologica non giova al dibattito.

 

 

 

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