Purtroppo è vero. Come emerge dal Rapporto sulla secolarizzazione in Italia, presentato il 26 novembre scorso da Critica liberale e dalla Cgil-Nuovi Diritti alla Facoltà Valdese di Roma, l’Italia è un paese in cui sempre più persone paiono estranee o disinteressate alla tradizione cristiano-cattolica e ai modelli di vita che essa propone, anche se ciò avviene con maggiore lentezza rispetto ad altri paesi occidentali ed europei in particolare. Sono inequivocabilmente in calo le suore, i sacerdoti, i battesimi, i matrimoni in chiesa; persino l’8 per mille risente di una certa diminuzione, e questo probabilmente non è dovuto solo alla crisi economica che morde.



Del resto non era indispensabile il citato rapporto per accorgersene: è sufficiente guardarsi intorno o riflettere un po’ su certi avvenimenti per capirlo. Le reazioni che la morte del regista Monicelli ha suscitato, per esempio, solo alcuni anni fa sarebbero state impensabili. Non sarebbe mai accaduto di approfittare di una circostanza così drammatica e dolorosa per cavalcare la causa dell’eutanasia (peggio ancora: della soppressione per legge degli anziani depressi “consenzienti”); né sarebbe mai venuto in mente ad alcuno di definire un angosciante suicidio, come ha scritto Giuliano Ferrara in uno splendido articolo di alcuni giorni fa (“La tiritera nichilista”, Il Foglio, 2 dicembre 2010) “uno sberleffo del laico, un atto di anticonformismo, l’espressione di una volontà incoercibile, superba, nobilitante per l’intera comunità”, trasformandosi, nel discorso pubblico italiano, “in un orgoglioso e tetro manifesto ideologico a favore della libertà, dell’autodeterminazione umana, e del loro più recente compagno in occidente, il nulla”. Avrebbe prevalso, se non il silenzio – ormai impossibile data l’invadenza dei mass-media – perlomeno la pietas, la compassione, forse la ricerca di una spiegazione-giustificazione di un simile atto nella patologia o nella solitudine.



Insomma, è verosimile che anche in Italia si stia lentamente consumando una svolta epocale (altri paesi sono anche più avanti… nel baratro): l’ideologia del nulla avanza, e l’umanità regredisce, anche se è probabile che il fenomeno risulti sovradimensionato dall’appoggio di alcuni importanti organi di stampa che su “certi temi” battono la grancassa…

Premesso che, comunque, i dati possono essere interpretati differentemente a seconda di cosa si vuole dimostrare (per es., il fatto che “nell’Italia propagandata insistentemente come cattolica un 20 per cento dei nati non viene battezzato”, significa – viceversa – che ancora l’80% (!) delle famiglie chiede questo fondamentale sacramento per i propri figli…), c’è un aspetto particolare, nel rapporto sulla secolarizzazione, su cui occorre fare chiarezza. Un aspetto su cui, nei giorni scorsi, un giornalista generalmente equilibrato come Marco Politi ha stranamente scritto cose errate e fuorvianti, spinto forse da pregiudizio e ostilità ideologica (“La ricerca: gli italiani lasciano le scuole cattoliche”, il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2010).



L’incipit dell’articolo può lasciare di stucco per faziosità, disinformazione e malizia (divide et impera): “Mentre Berlusconi toglie i soldi al volontariato del 5 per mille e li convoglia sulle scuole cattoliche…”; ma questo, lo sappiamo, fa parte ormai del repertorio “teatrale” di chi continua, in barba a qualsiasi evidenza di utilità sociale ed economica, a negare alla scuola non statale il diritto di esistere, e coglie ogni occasione per attaccare il “nemico” politico. Rispondere – l’abbiamo accertato – non serve a nulla.

 

Sono i dati che Politi riporta circa la consistenza numerica delle iscrizioni alle scuole cattoliche, invece, e in particolare la loro interpretazione, che non convincono proprio e che esigono una replica. Mentre il rapporto sulla secolarizzazione sottolinea un calo degli iscritti alle scuole cattoliche – “soprattutto nella prima età” – dal 9% del totale nel 1991 al 6,7% del 2008, a dimostrazione di un palese dissenso del popolo italiano nei confronti della gerarchia ecclesiastica, il  Cssc (Centro Studi Scuola Cattolica) ha evidenziato in suo recente rapporto (Dati e tendenze sulle scuole cattoliche paritarie, di Guglielmo Malizia e Sergio Cicatelli, 2010), come nelperiodo 1997/98-2007/08 gli iscritti alla scuola dell’infanzia aderenti alla Fism (Federazione Italiana Scuole Materne), che ha un fortissimo radicamento fra le scuole parrocchiali, siano cresciuti di un quinto circa, cioè del 19,9% , mentre nelle primarie e nelle secondarie di 1° grado gli alunni delle scuole cattoliche sono cresciute di +0,8% e di +2,2% in confronto a quelle statali che hanno registrato, nel medesimo periodo, un aumento di +0,2% nelle primarie e una diminuzione di -5,2% nelle secondarie di 1° grado. Solo nelle secondarie di 2° grado le scuole cattoliche hanno registrato un calo notevole (-20,2%) tra il 1997/98 e il 2007/08, a fronte di una crescita del 6,2% delle statali.

 

Se un calo c’è stato, dunque, non riguarda uniformemente tutti gli ordini e gradi di scuola; incide pesantemente sul valore assoluto, inoltre, il dato della scuola secondaria superiore, penalizzata fortemente dall’elevato costo di gestione e dall’assenza pressoché totale di contributi pubblici.

Se poi andiamo a esaminare i dati nazionali, gli allievi delle scuole paritarie (delle quali la grande maggioranza è cattolica o di ispirazione cristiana), rappresentano attualmente ben il 12% del totale (dati Miur a.s. 2007/08), e sommando le percentuali della scuola dell’infanzia e primaria si arriva addirittura al 46%!

 

 

Ma al di là dei differenti calcoli numerici, ci sono altri aspetti che smentiscono ampiamente la tesi che l’articolo di Politi si sforza di dimostrare.

In questi anni, infatti, si è verificato un aumento complessivo di iscrizioni alle scuole paritarie, e questo nonostante una drammatica, progressiva e costante diminuzione del numero totale – questo sì – di scuole non statali, dovuta principalmente alle difficoltà di gestione prodotte dal calo delle vocazioni religiose e dalla mancanza di una effettiva attuazione della legge di parità sul piano economico, mentre su quello giuridico diventava obbligatorio ottemperare alle disposizioni (assai costose!) previste dalla L. 62/2000.

 

Occorre anche considerare che almeno una parte di questa diminuzione numerica è frutto di una razionalizzazione complessiva del sistema, in cui diverse realtà del privato sociale, come associazioni, cooperative e fondazioni, sono subentrate nella gestione alle congregazioni religiose, a dimostrazione di una crescente vivacità e intraprendenza da parte della componente laica della Chiesa italiana. Una parte cospicua degli alunni inizialmente conteggiati come iscritti alle scuole cattoliche, pertanto, andrebbe ora cercata fra gli iscritti alle scuole di ispirazione cristiana (solo la CdO Opere Educative e ne associa più di 500).

 

“Gli italiani lasciano le scuole cattoliche”? Tutt’altro! Cosa sarebbe accaduto, piuttosto, se accanto alla parità giuridica fosse stata introdotta anche una piena ed effettiva parità economica? Certamente i dati sull’aumento delle iscrizioni alle scuole paritarie sarebbero sensibilmente più alti (come ha dimostrato anche una ricerca recentemente realizzata da Luisa Ribolzi e Tommaso Agasisti, presentata il 13 ottobre scorso al Senato), e probabilmente anche il numero di scuole non statali non sarebbe diminuito. Anzi.

 

Tutto questo non sta a dimostrare, ovviamente, che l’Italia sia un paese ancora profondamente cattolico: il quadro complessivo è ricco di luci e ombre, non lo si può negare; possiamo affermare con assoluta certezza, però, che le difficoltà delle scuole cattoliche e non statali in generale siano dovute più alla mancanza di un reale parità economica che al dissenso (artificiosamente “gonfiato” e deformato dalla lente dell’ideologia) nei confronti delle scelte ecclesiastiche di cui parla l’articolo di Politi; è evidente, infatti, che il desiderio di una effettiva libertà di educazione (valore laico ma indiscutibilmente mutuato dalla tradizione cristiana) fa ancora parte del patrimonio culturale del nostro popolo. La realtà è “testarda”, e non basteranno certamente pochi dati taroccati o malamente interpretati a cambiare le carte in tavola.

 

 

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