Il 10 giugno 2008 il Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini pronunciò in Commissione Cultura della Camera un discorso programmatico che riscosse anche le simpatie della sinistra riformista. La giovane ministra faceva riferimento all’emergenza educativa, di cui soffre il Paese, e puntando l’indice al quadro europeo dove l’Italia era relegata agli ultimi posti nelle statistiche Ocse-Pisa che misurano le competenze scientifico-matematiche dei 15enni, lanciava con piglio inconsueto le sue soluzioni.
Per recuperare il capitale umano disperso (quello dei giovani che fuoriescono dal sistema di istruzione, ed anche di quelli che vi escono con un diploma poco spendibile) occorreva fare perno (questo era il senso delle linee di indirizzo) su una visione della scuola come servizio alla nazione piuttosto che cassa di compensazione di certa disoccupazione intellettuale. Si trattava, veniva rimarcato, di aprire fronti nuovi: la valorizzazione dei docenti, la cultura del merito, l’autonomia scolastica, la parità tra scuola statale e non statale.
Sembrava che allora lo si potesse fare ricorrendo addirittura a quanto di meglio aveva prodotto la riflessione politica del centro-sinistra in campo scolastico: il Libro bianco sulla scuola del settembre 2007 che tra le altre cose proponeva una riduzione del numero degli insegnanti per classe (misura che poi è stata adottata, in condizioni politiche non certo di dialogo).
Dopo due anni e mezzo, i numerosi provvedimenti che sono stati messi in cantiere rendono possibile un bilancio, per quanto ancora interlocutorio, che per essere realistico dovrà tenere conto non solo dei principi enunciati in partenza, ma anche delle condizioni nelle quali il percorso si è realizzato. O meglio delle coordinate che sono state imposte alla scuola dalla legge finanziaria per l’anno 2009 che ha preteso (art. 64) un mix di razionalizzazione dell’impiego dei docenti (volgarmente i “tagli del personale”) e di ridefinizione dei curricoli dei diversi ordini di scuola (nobilmente le “riforme”).
Ora, già è complicato fare le riforme avendo le risorse (come dimostra per altri aspetti drammatici il mondo universitario che pure può godere di un piano finanziario non indifferente); certamente molto più difficile è farle con risorse esigue, seppure non del tutto mancanti sul piano generale. A questo livello bisogna però intendersi sul concetto stesso di “risorsa”, che non è calcolabile solo sulla base di ciò che si spende (l’Italia in rapporto al Pil spende il 4,5% e in rapporto alla spesa pubblica totale il 10% circa, contro medie Ocse più alte), ma anche di ciò che si capitalizza in termini di qualità dell’offerta formativa, di valorizzazione delle figure professionali esistenti nella scuola e di personalizzazione dei percorsi.
È risorsa ciò che genera cultura; non lo è necessariamente un investimento che non genera capacità di dare senso a ciò che accade nella vita e nella realtà. Le attuali contingenze politiche ed economiche non consentono di immaginare scenari in cui alla scuola si possano trasferire più risorse di quelle che sono consentite da una stagione di risparmi che investe ogni settore della vita produttiva del Paese. Nessuno vieta di pensare, tuttavia, che sia attuabile una strategia che mira a migliorare la qualità dei piani di studio proposti dalle scuole al territorio e, nelle scuole, dai singoli insegnanti, distribuendo e organizzando nel migliore dei modi la quantità dei mezzi di cui si dispone.
Da anni, e da più parti, si è teorizzato che l’essenzialità dei percorsi scolastici, ridisegnati in chiave europea sia per quanto riguarda i quadri orari, sia gli anni di studio possa essere compatibile con l’innalzamento della qualità dell’istruzione (Berlinguer volle provarci riducendo di un anno il ciclo primario: e gli andò male; ai tempi della Moratti l’ipotesi di licei di soli quattro anni fu ben presto ritirata).
Il presupposto che rende l’eventuale dimagrimento accettabile è che sia connesso a misure di rafforzamento dell’autonomia scolastica e di sostegno della professione docente in termini di sviluppo di una carriera del docente, sottratto al ruolo impiegatizio cui è, nei fatti, relegato. L’attuale riassetto del sistema scuola cui ha messo mano il ministro Gelmini ha snellito la macchina, senza che fosse del tutto chiaro il rapporto con le opportunità che esso consentiva.
Nell’opinione pubblica e tra gli operatori dell’ambito scolastico ha dominato l’impressione (per alcuni la certezza) che la razionalizzazione sia succube delle ragioni economiche più che di quelle pedagogiche e didattiche. Il cortocircuito tra revisione dell’organizzazione scolastica e tagli del personale e del tempo scuola è l’espressione di una temperatura interna con cui sono avvertiti i provvedimenti di questo governo. Il collegamento, a ragione veduta, non ha molti fondamenti, ma è sufficiente ad avvelenare il clima interno ai collegi docenti.
Per fare alcuni esempi, il ritorno al maestro prevalente nella scuola primaria (invocato dopo la constatazione della inefficacia didattica della pluralità dei docenti per classe) ha permesso di liberare disponibilità che hanno garantito l’attivazione di nuove classi a tempo pieno sul territorio nazionale (782 nell’a.s. 2010-11). Eppure l’impostazione plurima di orari settimanali a 27, 30, 40 ore ha causato spesso il blocco della programmazione nei circoli didattici non abituati a fare i conti con flessibilità e spezzoni di orario.
Nella scuola superiore, un’importante riforma, già avviata nelle prime classi di questo anno scolastico, ha ridisegnato il volto di licei, istituti tecnici e istituti professionali in nome di uno slogan semplice e condivisibile: l’attività didattica è da modulare in rapporto ai profili in uscita degli studenti, quindi meno ore di insegnamento frontale non coincidono con il decremento delle ore di tempo scuola, essendo state riportate alla misura dei 60 minuti le ore di lezione.
Eppure anche in questo caso, pur alla presenza di rilevanti elementi di innovazione dei contenuti dei percorsi, gli istituti scolastici non sempre, tranne rare eccezioni, hanno gestito al meglio l’autonomia e la flessibilità loro concessa. Indotti per lo più a spostare blocchi di ore da un anno all’altro, da una disciplina all’altra che non a organizzare, anche per le oggettive difficoltà, l’organico di istituto della cui necessità peraltro si continua a discutere in sede ministeriale.
Anche i fatidici tagli del personale docente nel 2010-11 sono stati inferiori di circa 6mila unità rispetto agli oltre 25mila attesi, in gran parte compensati dai pensionamenti e dalle nuove immissioni in ruolo: ciò nonostante tutta la categoria docente si è sentita colpita, complice anche l’operazione sugli scatti di anzianità, prima tolti poi restituiti, che non ha certo rasserenato l’ambiente.
E proprio quest’ultimo episodio è emblematico della difficoltà a tradurre in pratica il tema del merito. Alla valorizzazione della professionalità docente erano destinati i risparmi accantonati in seguito alle misure di razionalizzazione, come più volte il ministro ebbe a dichiarare. Ora invece gli stessi accantonamenti servono a compensare il mancato blocco degli scatti di anzianità, di modo che poco resta per la rivalutazione della professionalità docente (per ora solo un progetto sperimentale, comunque interessante).
La prova provata, in altri termini, del difficile aggancio (per non dire impossibile) di revisione e rilancio dello stesso soggetto, mentre sullo sfondo dell’attuale fase di politica scolastica restano i cambiamenti che potrebbero fare da volano a tutto il resto: il regolamento sulla formazione iniziale dei docenti (ora presso la Corte dei Conti) e il nuovo sistema di reclutamento degli insegnanti, ancora da disegnare.