La riforma dell’università è legge. Dopo due anni di lavoro il ddl taglia il traguardo, non senza strascichi di polemiche e di accese contestazioni. Vi sono significative novità: dalla riforma della struttura organizzativa degli atenei a quella del reclutamento docenti e ricercatori e del loro stato giuridico, dalla creazione di un fondo per il merito su base nazionale all’individuazione dei principi e dei criteri della valutazione.



Come già abbiamo avuto modo di dire, il testo – scritto a più mani, anche da esponenti del mondo politico e accademico del Pd oltre che di Confindustria – contiene spunti positivi. A cose fatte, in relazione alla situazione di stallo in cui si trova oggi l’università italiana, si può dire: meglio una riforma che una non-riforma. Ma permangono motivi di preoccupazione e contraddizioni di fondo: i principi ispiratori del merito, dell’autonomia e della responsabilità rischiano di rimanere soltanto sulla carta.



Come si persegue l’autonomia attraverso un testo che ha un impianto schiettamente statalistico? Come si conciliano i principi della razionalizzazione del numero delle università (tramite la previsione di fusioni e di federazioni) con la possibilità riconosciuta alle università telematiche di trasformarsi in vere e proprie università? Come stanno insieme il merito e la totale assenza di risorse destinate a finanziarlo? Come si concilia l’intenzione di eliminare il precariato a vita con la possibilità, sancita dalla legge, di essere “precari stipendiati” fino a 15 anni dopo la laurea (dottorato compreso)?



Ma ora la riforma è legge. E bisognerà applicarla nel modo migliore. Abbandonarsi al lamento o alla recriminazione non serve: occorre che tutti – politici, addetti ministeriali, rettori, professori, studenti -, secondo le proprie responsabilità, si facciano carico di attuare la riforma in maniera intelligente e responsabile. Come tutti sanno, il testo licenziato dal senato è una cornice, ma il quadro deve ancora venire e richiederà un’imponente quantità di decreti attuativi. I prossimi mesi saranno dunque decisivi e occorrerà vigilare, sfruttando tutti gli spazi di libertà che rimangono aperti, sulla concreta realizzazione dei contenuti della legge, per non trovarsi domani ancor più imprigionati nella giungla delle norme e nella palude di una burocrazia soffocante.

Per far ciò c’è bisogno di persone che abbiano a cuore il destino dell’università e non soltanto la rendita politica propria o del gruppo di riferimento. Da questo punto di vista è abbastanza sconcertante quello che è successo in questi giorni, fino al grossolano tentativo di alcuni gruppi e di tanti organi di stampa di strumentalizzare la persona e la funzione del Presidente della Repubblica per accreditare come “associazioni studentesche” uniche ed esclusive quelle formazioni, politicamente ben qualificate, che scelgono come metodo di protesta forme più o meno marcate di prevaricazione, quando non di violenza – e che si limitano a dire “no”, ma non sono in grado di proporre alcuna realistica alternativa -, mentre le decine e decine di migliaia di studenti presenti nelle università, che pure sono intervenuti nelle recenti vicende con altre e più costruttive modalità, si vedono condannati all’anonimato e squalificati. Lo schema è ben noto: l’università è terreno privilegiato di sciacallaggio politico.

 

Per fronteggiare questo momento buio dell’università italiana non basta una riforma, bella o brutta che sia. Occorre una presenza critica e costruttiva, fatta di gente – docenti e studenti – che accetti di non andare sulle prime pagine dei giornali e che si impegni ugualmente con passione in ogni aspetto della vita universitaria: dalla ridefinizione dei corsi di laurea e delle tabelle alla valorizzazione delle risorse umane e materiali esistenti, dalla partecipazione attiva alla didattica alle attività culturali, dalla rappresentanza negli organi accademici alla creazione di cooperative di servizio agli studenti.

 

Senza una tale presenza – riforma sì, riforma no -, saremo spazzati via dalla storia, come un popolo e un Paese che hanno fatto il loro tempo. Ma questa presenza c’è, basta andare a vedere, invece che accontentarsi di leggere “la realtà” dai monitor dei nostri computer. Da questa presenza occorre ripartire.