In attesa dell’emanazione del bando del concorso per Dirigenti Scolastici, una schiera numerosa di docenti in questi anni ha frequentato corsi, studiato e letto libri di pedagogia, sociologia, psicologia, economia e, soprattutto, diritto amministrativo.

Considerando che, ad esempio, il libro Il dirigente scolastico delle edizioni Edises, a cura di Giuseppe Mariani, è giunto alla nona ristampa in meno di un anno, e sommando tutti i frequentanti ai vari corsi, on-line e in presenza, master e corsi di perfezionamento in università, e gli “autodidatti”, non si va lontani dal vero ipotizzando un numero di 80mila aspiranti a quelle poche migliaia di posti di dirigenti scolastici messi a concorso, visto anche il criterio di ammissione, forse un po’ troppo inclusivo, dei cinque anni di ruolo (una buona volta, però, ci saranno dirigenti più giovani). Dal momento che gli insegnanti statali in Italia sono circa 800mila, si può dire, quindi, che circa un docente su dieci si appresta a tentare questa avventura. Indubbiamente questi aspiranti dirigenti sono spinti anche dalla prospettiva di una maggiore soddisfazione economica, considerato il magro stipendio dei docenti, ma bollare tutto questo lavoro aggiuntivo semplicemente come qualcosa di interessato e utilitaristico potrebbe essere riduttivo e parziale.



In certe scuole, i docenti quasi si vergognano di questa loro aspirazione. Ci mancherebbe altro! Da quando in qua, studiare, aggiornarsi, approfondire argomenti di grande spessore pedagogico e organizzativo dovrebbe essere considerato come qualcosa di cui vergognarsi! Certo, si potrebbero muovere, su questo bando, moltissime critiche e dubbi, comunque leciti, sul ritardo, sull’inadeguatezza, sull’inefficacia dei test attitudinali, per chi andrà a ricoprire un ruolo così importante e delicato nella scuola. Io, però, vorrei adottare una prospettiva diversa, a partire dalla mia esperienza personale di aspirante dirigente.



Sicuramente decidere di diventare, o tentare di diventare (visto il quasi “terno al lotto” dei test preselettivi) dirigenti scolastici, vuol dire pensare ad un ruolo profondamente diverso da quello del docente. Qualcuno potrebbe persino insinuare che chi si appresta a intraprendere questo concorso è stufo di fare l’insegnante.

Personalmente sono contento del mio lavoro di insegnante, e sono bravo a farlo, e non lo dico per presunzione ma perché me lo dicono non solo i miei alunni, ma anche quelli che ascoltano o vedono le mie lezioni sul web.

Inoltre, penso – anche perché ne ho conosciuti molti in questi mesi nei corsi organizzati da Disal e Diesse in preparazione al concorso – che questi docenti, spesso, sono anche quegli stessi che nelle scuole si distinguono per disponibilità a collaborare. Sono magari vicari, collaboratori dello staff dirigenziale, funzioni strumentali al POF, responsabili di importanti progetti, ecc… Sono convinto, infatti, che debba diventare dirigente scolastico non un docente che ha sbagliato lavoro, o che cerca risarcimenti delle proprie frustrazioni, ma uno che ama profondamente la scuola.



 

Forse i nostri predecessori avevano una concezione del dirigente poco moderna e aggiornata, ma su questo avevano ragione: il dirigente deve essere, almeno inizialmente, un buon insegnante, poiché deve saper applicare in un contesto più ampio le capacità relazionali sviluppate in classe. Deve anzitutto saper gestire le relazioni, e non rinchiudersi nella solitudine del suo studio e del suo ruolo. Certo, le competenze da sviluppare per vincere il concorso sono molto ampie, e vanno da quelle socio-psico-pedagogiche a quelle giuridiche. Tuttavia, io sono convinto che la sfida debba essere affrontata con fiducia nei propri mezzi e voglia di imparare. È vero o no che noi docenti siamo i primi a parlare di educazione permanente (lifelong learning)? Bene, di questo si tratta: di ampliare e approfondire le proprie conoscenze e competenze, che, comunque vada l’esame, saranno utili anche per la professione del docente.

 

Questa occasione è quindi la dimostrazione che la scuola può cambiare, può riformarsi dal basso. Proprio adesso che si sta attuando nelle scuole il riordino dei cicli, questa è la prova che i cambiamenti nella scuola devono passare dall’aggiornamento e dalla formazione dei docenti.

 

Vorrei però approfondire anche il ruolo che i dirigenti scolastici, giovani o meno giovani, possono e debbono avere proprio nei confronti del riordino. Il discorso non riguarda però solo le scuole superiori. Occorre, in tutti gli ordini di scuola, prendere al volo le occasioni di cambiamento, non per fare sterili discorsi ideologici, ma per mettere in discussione il modo in cui si sta in classe. Secondo me una prospettiva utile per tutti è quella di partire dai profili in uscita. In altri termini occorre chiedersi qual è il traguardo che si intende raggiungere, non semplicemente alla fine di una unità didattica o di un singolo anno scolastico, ma alla fine di un corso di studi.

Quindi varrebbe la pena di centrare l’attenzione sulle competenze trasversali, quelle che poi serviranno per tutta la vita, quelle che l’alunno dovrebbe dimostrare alla fine della primaria, della secondaria di primo grado, o della secondaria di secondo grado.

 

Per fare questo occorre, a breve termine, ritornando a considerare il ruolo della singola unità didattica, privilegiare gli obiettivi strategici per conseguire quelle competenze e mettere in secondo piano gli obiettivi che non sono funzionali allo scopo. Ad esempio, tra le competenze chiave di cittadinanza vi è quella di saper “comunicare”. In vista del raggiungimento di questa competenza, è più utile che un ragazzo sappia riconoscere il complemento eccettuativo o esclusivo, oppure che arricchisca il suo vocabolario, sapendo distinguere significati e posizione delle parole, con esercizi di lessico e semantica? È più importante che sappia riconoscere il punto di vista interno o esterno del narratore in un testo, oppure che acquisisca il gusto per la lettura?

 

Sicuramente un dirigente scolastico, o un docente aggiornato, saprebbe indirizzare i docenti verso la giusta risposta, che in entrambi i casi è la seconda, pur senza negare il ruolo, come sta spiegando Daniela Notarbartolo in alcuni corsi di aggiornamento sull’“Italiano nella Riforma”, di tassonomie o nomenclature, a condizione che non diventino più fini a se stesse, come sono state in passato.

 

Quindi, che riescano oppure no ad entrare nel novero delle poche centinaia di fortunati (ammesso che siano fortunati quelli che oggi si apprestano a diventare dirigenti, con il carico di lavoro e di responsabilità che si accollano), sta di fatto che quegli 80mila torneranno comunque a fare il loro lavoro con una maggiore consapevolezza del sistema all’interno del quale si inserisce il loro ruolo di docenti, e potranno dare un loro apporto, più professionale, all’organizzazione della scuola, e – cosa ancora più importante – all’apprendimento degli alunni. Perché proprio questo dovrebbe essere il compito di un dirigente, o di un aspirante tale: approfondire e padroneggiare gli strumenti didattici e i modelli organizzativi che possono rendere più efficace l’apprendimento, compito fondamentale della scuola.

 

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