Caro direttore,

mi permetto, in questo tempo di travaglio politico e ideale per il mondo dell’università, di formulare una tesi: il destino dell’università italiana dipende dal destino delle facoltà umanistiche, che in Italia versano oggi in una condizione di degrado ideale e scientifico preoccupante. Uscire da questo stato di degrado è possibile, credo, da subito e a costo zero anche se, ovviamente, non in un battibaleno. Proverò a formulare alcune ipotesi in conclusione, ma per dare un’idea del degrado in questione parto da alcuni fatti realmente accaduti. Ovviamente non si possono generalizzare ma sicuramente possono essere visti come sintomi.



Un paio di mesi fa ho incontrato ad una conferenza un mio collega svizzero, professore di fama internazionale, che sapevo essere stato invitato ad un convegno filosofico in Italia per presentare il suo lavoro. Alla mia domanda “com’è andata?” ha risposto amareggiato che era l’ultima volta che ci cascava, che non avrebbe più accettato inviti a parlare in Italia. Al mio sguardo un po’allibito ha risposto che al convegno aveva avuto per l’ennesima volta l’impressione di essere stato invitato solo per dare finto lustro al programma sfoggiando uno straniero (bestie rare!) tra i relatori, ma che a seguito della sua presentazione la discussione (unica ragione, a ben vedere, per cui si organizzano convegni!) era stata svogliata, inesistente e che i docenti italiani presenti, per lo più digiuni di inglese o qualunque altra lingua estera, non avevano dimostrato alcun interesse anche solo a presentarsi o a chiedergli chi fosse e che cosa facesse.



Un mio amico americano, poco dopo, mi ha raccontato un’altra storia di totale mancanza di ospitalità e curiosità intellettuale in Italia. Era stato invitato da un suo conoscente come visiting professor per tenere un seminario in un’università italiana, in cui era stato per circa tre mesi. In tre mesi (ripeto, tre mesi) nessuno dei docenti del dipartimento che incontrava in corridoio tutte le mattine gli aveva rivolto la parola al di là del “buongiorno, buonasera”. Perché? Semplice. Un accademico straniero è uno che non ha alcuna influenza politica o accademica, non siede nella commissione che decide (uso il presente per scaramanzia, nei confronti della riforma) arbitrariamente se diventerai ordinario, non è un potenziale candidato preside o un tuo concorrente nell’assegnazione di assegni di ricerca. Quindi, in fondo, chi se ne frega?



 

Questo atteggiamento svela una tragica realtà: nelle facoltà umanistiche italiane serpeggia un menefreghismo scientifico che, a mio avviso, affonda le sue radici in una visione ideologica per cui le cattedre di Filosofia, Letteratura, Storia vengono spesso trattate al pari di piattaforme per fare politica, accademica e non. La “ricerca” per molti è una parola sventolata quando fa comodo ma in fondo tutto, dalla lezione – dove spesso si infliggono agli studenti soltanto parole al vento e anatemi contro il Ratzinger o il Berlusconi di turno – all’assegnazione di tesi – spesso totalmente casuali -, alla scrittura di libri e articoli – spesso vere e proprie sbrodolate illeggibili fatte di nozioni ripetute a orecchio rimembrando studi compiuti decenni addietro – è trattato come un pretesto. In questo modo, proprio quell’ambito di studi in cui più evidente è la natura del tutto disinteressata, cioè non strumentale di ogni vera ricerca intellettuale (il vero è un bene che viene perseguito per sé, diceva Platone) diventa il contesto in cui la ricerca è svogliata, inospitale, strumentalizzata a meri fini politico-accademici.

Che fare? Anche se a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare opportuno lasciare andare alla deriva un universo già così profondamente sfibrato e ripartire da altro, io credo che se vi è un futuro per l’università italiana questo non potrà che partire – al netto della riforma – da un rilancio degli studi umanistici. Anzitutto perché, come accennato, gli studi umanistici, proprio per il loro carattere così marcatamente “ideale”, sono chiamati quasi “naturalmente” ad essere esempio di passione disinteressata per la ricerca della verità anche per tutti gli altri ambiti del sapere. Secondo poi, perché se è vero che in Italia non potremo mai competere realmente (per ragioni di risorse) con la grande ricerca sperimentale fatta all’estero, potremmo fin da subito competere ed eccellere in quella ricerca che non ha bisogno di costosi alambicchi e provette, ma soltanto di vera passione e di un senso per la ricchezza della storia che il popolo italiano porta in sé più profondamente di altri. Certo, anche per rilanciare le facoltà umanistiche c’è bisogno di risorse, ma per questo le risorse ci sono eccome. Per altro, le seguenti misure potrebbero essere prese, in quest’ordine di importanza, a costo zero:

– promuovere tutte quelle esperienze, specialmente in ambito studentesco, in cui già da ora a prevalere è una passione per la ricerca. Uno studente che di questi tempi si iscrive a Lettere o a Filosofia in Italia non può che farlo almeno inizialmente animato da una passione ideale, visto che sa che da un punto di vista meramente lavorativo le prospettive non sono certo allettanti. Mediamente, dunque, è più facile trovare vera passione per la ricerca in studenti e gruppi di studenti mossi da questo ideale che in anziani professori ripiegati esclusivamente su se stessi e sulle proprie manovre politiche. Largo agli studenti!

– Promuovere i rapporti già esistenti con le università estere. Dal punto di vista della ricerca il rapporto con gli stranieri è prezioso proprio perché può fornire un contesto “politicamente neutrale” in cui la discussione si concentri veramente e solo sulla disciplina. Il collega americano che arriva in dipartimento anche solo per poche settimane o giorni è uno sconosciuto irrilevante solo se a prevalere è una logica di potere. Mentre se è la ricerca a interessare davvero egli è un prezioso interlocutore che proprio per la sua ininfluenza politica può dare giudizi sul valore del lavoro che fai senza prima passarli al setaccio dell’opportunità. Largo agli stranieri!

– Implementare per tutte le riviste di settore il metodo della cosiddetta peer-review (cioè il giudizio anonimo di due “pari” su ogni proposta di pubblicazione con conseguente accettazione o rifiuto). Nelle maggior parte delle riviste e collane editoriali umanistiche italiane (diversamente dal resto del mondo) tutti gli articoli e libri sono pubblicati su invito. Tradotto: il direttore decide arbitrariamente chi pubblica. Quindi, se tizio ha bisogno di un articolo per avere un punto in più al prossimo concorso, via! In mezza giornata si mette insieme qualcosa e si spedisce. Conosco gente che ha pubblicato tre o quattro articoli diversi usando le stesse citazioni e proponendo infine la stessa tesi sulla stessa rivista. Se invece venisse coinvolta la comunità scientifica, coinvolgendo esperti del settore che si pronuncino su un testo “anonimo” semplicemente giudicando in base alle loro conoscenze se è degno di essere pubblicato o no, chiunque potrebbe pubblicare, senza inviti a patto che l’articolo o il libro prodotto sia realmente valido. Largo alla comunità scientifica!