La mia esperienza didattica con allievi stranieri è piuttosto limitata. Ho incominciato a insegnare nel 1975, quando ancora l’immigrazione nel nostro paese era scarsa e dopo dieci anni di precariato, due dei quali trascorsi all’Università di Lovanio come borsista, sono entrata in ruolo nel 1985 e per 25 anni ho insegnato italiano e latino al triennio del liceo scientifico. Di quei due anni in Belgio ricordo l’impossibilità a comunicare in lingua fiamminga, compensata però dall’amore per ciò che studiavo e che mi offriva una relazione necessaria a vivere.
Nei pochi allievi stranieri presenti nelle classi in cui ho insegnato in seguito non si è verificato alcun problema di lingua: a parte un vietnamita poi partito per gli Stati Uniti, si trattava di ragazzi stabiliti da tempo in Italia, con una conoscenza buona della nostra lingua, con pochi problemi di inserimento nel gruppo dei compagni. Un cinese, che possedeva un lessico ampiamente superiore a quello degli altri studenti, preferiva isolarsi con un libro in mano piuttosto che partecipare alla vita comune, persino nei momenti di divertimento. Un iraniano oltre alla scuola italiana frequentava per volere della famiglia anche la scuola iranica, con il risultato di una grande confusione. Un altro veniva dall’India e aveva una problematica psicologica di una certa gravità, complicata dalla concezione buddista respirata in famiglia, e si è ritirato dalle lezioni a causa di violente crisi di panico che lo assalivano anche a scuola.
Ho premesso tutto ciò solo per introdurre la differente esperienza che sto facendo a Portofranco, il luogo che impegna insegnanti e universitari per un aiuto allo studio individualizzato agli studenti della scuola media superiore che ne fanno richiesta. Finora mi è capitato di incontrare studenti in prevalenza stranieri, egiziani in gran parte, cingalesi, peruviani. La mia sorpresa è stata grande, innanzitutto per due dettagli: il primo è la puntualità alla lezione, il secondo è il “grazie” che mi sono sentita rivolgere da tutti alla fine dell’ora. Non mi era mai capitato, sia a scuola, sia nelle pochissime lezioni private date a figli di amici.
Ho notato che, accanto a un’indubbia difficoltà a comprendere l’italiano, c’è in questi ragazzi una volontà e un impegno a domandare spiegazioni e a sfruttare il tempo della lezione che non hanno paragoni con quelli dei pochi italiani che pure ho incontrato in quella sede. Questi ultimi sono più furbetti nel cercare le scorciatoie, oppure hanno bisogno di un forte sostegno nell’esecuzione dei compiti. La loro domanda è più limitata e in genere è più facile rispondervi.
Gli stranieri hanno una motivazione fortissima all’apprendimento delle abilità di base che sono ben coscienti di non possedere a sufficienza e sono spalancati a tutto ciò che viene loro dato, sotto forma di chiarimenti lessicali, grammaticali, di analisi logica, di costume, di storia passata e recente della nostra nazione. È veramente appagante lavorare al loro fianco; non ci si accorge neppure del tempo che va e delle tante persone che riempiono la stessa aula con la loro presenza colorata (quante ragazze con il velo!) e con le loro voci un po’ frastornanti.
Mi pare che si possa descrivere questo atteggiamento come una sorta di umiltà dinamica: quando uno è consapevole delle proprie deficienze, soprattutto lessicali, non teme di domandare spiegazioni, non lo sente come un disonore e ascolta e, se ancora non capisce, costringe l’insegnante a spiegarsi meglio, magari con esempi tratti dalla vita piuttosto che soltanto con l’uso dei sinonimi.
Mi auguro che questa determinazione permanga in loro anche quando avranno a poco a poco superato le loro lacune, perché se essa è una dote più facilmente reperibile in chi si trova in condizioni svantaggiate, è anche una risorsa notevole per il futuro inserimento nel mondo del lavoro. Non mi intendo di ricerca del personale, ma se mi trovassi per ipotesi a fare colloqui di lavoro con i ragazzi che ho incontrato a lezione, non avrei dubbi a prendere in considerazione il loro curriculum: la stoffa c’è.