Per la prima volta ieri mattina il rapporto INValSI sulle misurazioni nella scuola primaria è stato presentato in un ambito accademico: la facoltà di Statistica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, per impulso del professor Giorgio Vittadini, ha organizzato un seminario, secondo appuntamento del ciclo “I numeri raccontano”, in cui erano all’ordine del giorno non tanto i problemi di politica scolastica, ma soprattutto quelli metodologici e di ricerca collegati al lavoro dell’Istituto per la valutazione del sistema.
La ricerca dell’Invalsi costituisce già un importante risultato scientifico: è stata preceduta da ampio dibattito sulle questioni che hanno portato a questi risultati: gli ambiti e i sottoambiti che devono essere misurati, i quadri di riferimento, i tipi di prove, le formulazioni delle domande, e poi i metodi per costruire il campione, i modelli statistici per la trattazione dei dati, ecc.
Si tratta di un importante risultato in termini di ricerca scientifica, che torna ora all’accademia per essere preso in carico dagli studiosi. Il presidente dell’Invalsi dottor Piero Cipollone ha annunciato infatti che i database costruiti dall’Invalsi saranno messi a disposizione dei ricercatori, come già accade con i database dell’OCSE PISA, che sono diventati negli anni un patrimonio di dati da cui moltissimi ricercatori hanno attinto per approfondire correlazioni, impatto delle prove sui sistemi scolastici, elementi di economia dell’istruzione.
Il dottor Cipollone, che proviene dalla ricerca presso la Banca d’Italia, ha illustrato i dati e le deduzioni che è possibile trarne in termini tecnici, con una quantità di particolari che solitamente non compare nelle presentazioni di carattere più divulgativo, fatte per platee non specialistiche. Per esempio, un certo spazio è stato dato alla descrizione del campione, la cui affidabilità è maggiore del campione PISA.
Sulle note disuguaglianze fra nord, centro e sud sono emersi nuovi elementi: vedendo i dati disaggregati per decili, si evidenzia che il sud si pone a livello inferiore sia per il numero maggiore di allievi con basse prestazioni, sia per il numero minore di allievi con alte prestazioni. È ciò che emerge anche in PISA, ma la notizia nuova è che questo dato è già presente in seconda elementare. Nella classe quinta aumentano le eccellenze, ma ciò significa che aumenta anche la varianza. Le distanze si cumulano invece che diminuire col tempo: chi parte svantaggiato aumenta lo svantaggio e chi parte avvantaggiato ha maggiori probabilità di migliorare. L’aumento della varianza dalla seconda alla quinta è particolarmente preoccupante perché avviene all’interno della medesima scuola. Questo significa che la frequenza scolastica non produce il valore aggiunto atteso.
D’altro lato in italiano, l’ambito dove si concentrano le criticità è la comprensione del testo narrativo, su cui influiscono le condizioni culturali della famiglia di appartenenza, mentre la grammatica, che è frutto dello studio scolastico, fa da compensatore della varianza. Quindi la scuola, che potrebbe molto in termini di mobilità sociale, in questo momento, anche a causa di altre variabili tutte da intercettare, non è in grado di fare da motore.
La comunità scientifica, come ha ammesso il prof. Giuseppe Catalano del Politecnico di Milano, finora si è interessata solo saltuariamente della scuola e ai forti nessi fra politiche dell’istruzione ed economia. La presenza di rappresentanti delle università Bicocca, Politecnico e Statale, è un interessante segno che nella regione Lombardia potrà esserci un interesse convergente su questa materia.
Molti elementi meritano di essere studiati: con quali altre variabili si correla l’ampio divario territoriale fra sud e resto d’Italia? è vero che la frequenza del tempo pieno, largamente diffuso al nord, influisce positivamente sul successo scolastico ? A proposito del tasso di risposte del 55-65%: si tratta di un risultato comunque inaccettabile, a prescindere dalla varianza, perché rivela una situazione di carenza negli apprendimenti, oppure il dato dipende dalla difficoltà del test, tarato per misurare non solo la fascia centrale bensì anche le eccellenze? Come incidono l’adeguatezza delle strutture (biblioteche, mense, palestre ecc.), o le procedure, identiche per tutta l’Italia, come la mancanza di incentivi che invoglino gli insegnanti migliori ad operare in scuole problematiche?
La politica era comunque presente nelle persone degli onorevoli Aprea e Fioroni: rappresentanti di due schieramenti politici diversi, di fatto nel corso dei loro incarichi si sono trovati concordi sul passo da compiere in Italia verso la raccolta di dati informativi, sulla base dei quali operare le scelte di policy.
Le carenze sono soprattutto a livello di finanziamenti pubblici: le riforme non si possono fare senza un investimento. Purtroppo la congiuntura storica fa coincidere il momento in cui è necessario fare tagli drastici, ridurre gli sprechi, razionalizzare l’esistente, con un ampio movimento riformatore che punta al miglioramento della qualità, movimento che ha nelle misurazioni standardizzate uno dei punti qualificanti. Sarebbe necessaria un’azione bipartisan che dia un congruo sostegno, sia per rinforzare i ricercatori dell’Invalsi e l’autonomia dell’istituto sia per investire nelle azioni di miglioramento.
Certamente l’interesse e la pressione sociale sul tema stanno crescendo: le scuole sono pronte alla valutazione e addirittura chiedono che la rilevazione sia non solo censuaria per le scuole e campionaria per gli allievi, ma che coinvolga tutti gli allievi di tutte le classi. La circolare ministeriale 86 del 22 ottobre 2009, che prevede l’obbligatorietà della misurazione e non più l’adesione volontaria, cade perciò in un terreno già seminato. È un segno epocale, dal momento che i test nazionali non fanno più corto circuito con lo spettro della valutazione o meglio della censura sull’operato degli insegnanti, ma vengono sentiti come aiuto ad avere uno sguardo più ampio sui problemi della scuola.