Riforma delle superiori fatta. Punto e a capo. Il Ministro Gelmini lancia segnali che riaprono e approfondiscono tutti i molteplici fronti dai quali dovrebbe passare la trasformazione del pachidermico sistema scolastico italiano in un organismo vivo fatto di scuole autonome che funzionano e insegnanti motivati che lavorano per il bene dei loro alunni. Mission impossible? Forse no. Il riordino del ciclo secondario superiore (istituti tecnici e professionali; licei) presenta tre punti di forza (che possono diventare di debolezza, se non attuati): la gestione delle quote di autonomia da parte delle scuole; la possibilità di ritagliarsi l’organico funzionale; la preparazione e disponibilità dei docenti a muoversi entro spazi che sono diversi da quelli tradizionalmente assicurati da un meccanismo sindacal-assistenziale oggi in crisi.
Alla luce di questi tre gangli, le successive misure che la politica scolastica vuole introdurre (nuova formazione iniziale degli insegnanti; nuove forme di reclutamento; valutazione del merito) appaiono come complementari: una scuola così com’è ridisegnata dalla riforma (dimagrita nei quadri orari ma con la pretesa di incidere maggiormente sulle leve che promuovono la qualità degli insegnamenti e abbassano i tassi di dispersione) non potrà mai funzionare se non per opera di docenti che vivono fino in fondo la loro professione, e cioè sono disponibili a coinvolgere gli alunni nel percorso della conoscenza attraverso le discipline e, nello stesso tempo, a diventare protagonisti, per quello che loro compete, dell’offerta formativa che le scuole rivolgono al territorio.
È inevitabile: il filo rosso che attraversa il riassetto della scuola (il livello superiore è l’ultimo di una serie di ritocchi che hanno coinvolto anche la superiore di I grado e la primaria) passa attraverso la personalità del docente: la sua identità culturale e professionale, il cuore con cui vive ogni giorno l’impatto con l’attività didattica, il riconoscimento di cui gode (che dovrebbe essere anche espresso in una progressione di carriera degna di questo nome).
Perché tutto è connesso? Abbastanza semplice dimostrarlo.
Il riordino degli istituti e dei licei chiama in causa l’organico funzionale (che tra l’altro non si dovrebbe più denominare in questo modo: chiamiamolo organico di istituto o “organico strutturale”). Si tratta dell’opportunità concessa alle scuole, tramite le quote di autonomia e flessibilità, di usufruire di un lieve incremento dell’organico rispetto alla quota che deriverebbe dai quadri orari, al fine di consentire al meglio, insieme all’utilizzazione dei docenti in esubero, la gestione della flessibilità e del potenziamento dell’orario. Su questo punto l’Amministrazione è stata sufficientemente chiara, ora si attendono misure di accompagnamento delle scuole e indicazioni operative che non smentiscano le premesse.
E tuttavia il nodo dell’organico d’istituto (reso possibile a certe condizioni dall’uso dell’autonomia e della flessibilità), a cascata muove un altro ordine di problemi: quello delle nuove classi di concorso, anche questo all’orizzonte.
È palese che solo classi di concorso (e di abilitazione) più ampie potranno garantire a docenti preparati di muoversi su insegnamenti diversi ma convergenti. Sarà anche questo un passaggio molto delicato: si tratterà di dimostrare che classi di concorso meno rigide possono consentire non solo una mobilità dell’organico più flessibile, ma anche e soprattutto la trasmissione di contenuti di insegnamento accurati e ben organizzati attorno a nuclei disciplinari specifici, lontani dalla genericità nemica della cultura.
E qui veniamo appunto al nuovo percorso di formazione dei docenti, il cui regolamento, pare, si sta sbloccando dopo il parere espresso recentemente dal Consiglio di Stato. Un nuovo itinerario formativo che è strettamente connesso all’intero quadro concettuale su cui insiste la riforma. Da due punti di vista: la preparazione disciplinare del nuovo insegnante e la sua capacità di immergersi nella responsabilità di conduzione della classe, nel contesto delle necessità dell’istituto in cui opera.
Ora, il parere del Consiglio di Stato, tra l’altro, insiste su un tasto molto importante e delicato: quello del tirocinio formativo attivo (TFA), che secondo le ultime bozze di regolamento circolate qualche tempo fa sarà un cardine dell’iter formativo dell’insegnante.
Un tirocinio di 475 ore, pari a 19 crediti formativi, svolto presso le istituzioni scolastiche sotto la guida di un tutor. Di notevole importanza, in un certo senso strategica, l’osservazione del massimo organo amministrativo, per cui «risulta meritevole di approfondimento la questione – sollevata nel parere del Consiglio Nazionale della pubblica istruzione – relativa al riconoscimento del servizio prestato in via precaria presso le istituzioni scolastiche, ai fini dell’accesso al tirocinio formativo attivo, nonché come parte dei crediti formativi previsti nel tirocinio, con particolare riferimento ai laboratori didattici di cui alla tabella dodici».
Ci pare che questa soluzione (garantire il riconoscimento di un pacchetto consistente di crediti formativi, ai fini del TFA, agli insegnanti non abilitati in servizio) anteponga l’interesse della scuola in atto (e di chi la fa) alla teoria su un’immagine di scuola futuribile. Non sembra proprio una misura per risolvere il precariato: sì invece per testimoniare che l’insegnante si forma in gran parte assumendo un compito e svolgendolo.
Successivamente (ultimo nodo), l’insegnante abilitato andrà a reclutamento secondo modalità da precisare, tra le quali dovrebbero essere contemperata la possibilità delle scuole di assumere professionisti in possesso di certificate competenze pedagogiche e didattiche.
E così l’ultimo punto si riallaccia al primo: l’organico di istituto non è possibile senza il gioco dell’autonomia, che a sua volta richiede docenti professionisti preparati e riconosciuti come tali. Se manca un tassello, cade l’intera costruzione.