L’articolo di Gabriele Uras – apparso su ilsussidiario.net del 13 febbraio – è culturalmente prezioso e pedagogicamente utile per i giovani che leggono, perché sintetizza efficacemente la cultura politica del cattolicesimo democratico classico e della DC, la sua torsione statalista e perciò le sue responsabilità e le sue sconfitte.
La tesi è che la famiglia da sola non ce la fa a istruire/educare. Perciò lo Stato deve togliere i ragazzi alla famiglia e affidarli alla scuola, cioè ai docenti, messi a disposizione dallo Stato stesso: i docenti, che sono la figura-chiave di mediazione tra i ragazzi, le famiglie, lo Stato. La premessa sull’insufficienza-inadeguatezza della famiglia è un giudizio di fatto, assolutamente condivisibile. Le conseguenze che ne trae Uras sono, tuttavia, assai più larghe della premessa. E, come dice una regola fondamentale della logica minor, latius hos quam praemissae conclusio non vult!
Come stanno le cose? In primo luogo, la famiglia è titolare naturale dell’educazione/istruzione. La Costituzione riconosce tale diritto naturale. Questo riconoscimento non arriva a dire che la famiglia è autosufficiente e onnipotente sul piano educativo. Dice semplicemente, ma è decisivo, che quando la famiglia si rivolge necessariamente ad altri, essa lo fa in quanto è il committente (il commissioner) di ogni azione educativa. Lo Stato o qualsiasi altro soggetto è solo il fornitore (il provider) dei servizi educativi. Lo Stato non viene abolito, viene ridefinito nei suoi compiti e responsabilità. Che la famiglia sia il commissioner significa che: a) ogni ragazzo ha diritto a ricevere ogni anno i circa 8.000 euro necessari alla sua istruzione/educazione; b) la famiglia ha il diritto/dovere di scegliere il provider del servizio educativo (sia esso una scuola dello Stato o una scuola di altro soggetto, pubblico o privato) presso il quale spendere la dote statale annuale; c) per esercitare la libertà di scelta, la famiglia ha il diritto di conoscere e di comparare la qualità delle offerte educative dei provider. Perché la famiglia possa svolgere il ruolo naturale di commissioner, la Repubblica deve garantire il danaro per ogni ragazzo (le modalità possono essere le più diverse: detrazioni fiscali, spostamento diretto dei soldi sull’amministrazione della scuola scelta o altro ancora). In questo passaggio dei soldi dalla Repubblica al ragazzo, non ci può essere la distinzione, intollerabilmente ingiusta e tuttora praticata (benché le scuole paritarie siano soggetti pubblici), tra il ragazzo che sceglie una scuola di stato e uno che sceglie un soggetto privato: tutti i ragazzi (le loro famiglie) hanno diritto a 8.000 euro annuali. In secondo luogo, la Repubblica deve definire il core curriculum delle competenze-chiave e delle competenze vocazionali, che ogni ragazzo deve conquistare per essere persona, cittadino, accedere all’Università, per diventare lavoratore e professionista. Con due specificazioni: il core curriculum deve essere in asse con l’Unione Europea; il core curriculum deve essere aggiornato costantemente.
In terzo luogo, la Repubblica – in qualità di difensore civico dei ragazzi rispetto al provider scelto (stato e soggetti privati) – deve fornire alle famiglie una valutazione/certificazione rigorosa della qualità dell’offerta educativa dei provider (stato e soggetti privati), dei dirigenti, degli insegnanti. Non può fornirlo il Ministero della Pubblica istruzione, che è esso stesso provider quasi monopolistico: in Italia costituisce il 96 per cento dell’offerta. In tal caso, il controllore e il controllato coinciderebbero, sarebbero la stessa entità. Perciò tocca ad un’Authority della Repubblica, terza tra il governo, il Ministero, le scuole statali e i soggetti privati. In quarto luogo: ci deve essere un catalogo nazionale pubblico dei provider, che deve scrivere, accanto al nome di ogni scuola (statale o paritaria), il giudizio pubblico dell’Authority sulla sua qualità. Senza questo giudizio pubblico, le famiglie non sono in grado di esercitare la libertà di scelta. Finché i giudizi restano clandestini, chiusi nei cassetti delle singole scuole, non si dà scelta effettiva. E, soprattutto, l’educazione resta un affare di pochi, non coinvolge le famiglie, le imprese, il territorio, l’opinione pubblica. E perciò viene spento sul nascere ogni movimento di riforma. Se non parte dalle famiglie, dalla società civile, dalle imprese, non si svilupperà certo dall’interno degli apparati.
Dunque e per riassumere: la Repubblica dà i soldi, il curriculum, la valutazione esterna; lo Stato e i soggetti privati danno le scuole. In Italia, al momento, la Repubblica riconosce il carattere pubblico delle scuole private, che rispettino le condizioni poste dalla legge n. 62 del 2000 (e perciò diventano scuole paritarie).
Le famiglie sono i committenti. Proprio perché esse non sono i provider (salvo eccezioni che si vanno lentamente estendendo per i primi anni di età dei ragazzi, soprattutto negli Usa), le famiglie non hanno il diritto di interferire nell’organizzazione del servizio e nella didattica. Neppure nel caso che cooperative di famiglie istituiscano delle scuole e perciò si trasformino in provider. Non spetta al Consiglio di amministrazione o di indirizzo o, oggi, di Istituto, organizzare il servizio educativo, bensì alla comunità tecnico-professionale dei docenti e alla leadership educativa dei dirigenti. Alle famiglie toccano la scelta iniziale della scuola e il giudizio finale, con tutte le conseguenze del caso, compreso il licenziamento di dirigenti e insegnanti. Il giudizio sul “prodotto” educativo finale nasce sia dall’osservazione empirica diretta sia dalle analisi comparative più sofisticate dell’Authority o di ogni altro istituto locale a ciò finalizzato. Ogni forma di partnership educativa tra famiglia e scuola è necessaria, ma a condizione che ciascuno stia al proprio posto. L’attuale governance, quella prevista dai Decreti Delegati del 1974, ha favorito o il disimpegno della maggioranza delle famiglie o l’intrusione aggressiva di una minoranza.