“Ripristiniamo l’esame di quinta elementare”. Così La Stampa intitolava l’altro ieri un articolo di Marco Rossi Doria che tracciava un quadro tragico della nostra istruzione e in particolar modo della conoscenza dell’italiano. «Si scrive per frasi fatte, – dice Rossi Doria – spesso tratte da stereotipi della tv. Non si conoscono le basi della sintassi. Tanto che le frasi scritte vengono tenute su – si fa per dire – da parole tuttofare. Così la parola “che” è ormai polivalente: la si trova, indifferentemente, al posto di “a cui”, “di cui”, “in cui” ma anche al posto di “dove” e di “quando”. È una questione decisiva». E nel dare l’allarme, operazione nella quale non sembra essere l’unico di questi tempi, elogiava le crociate a favore della lingua di Paola Mastrocola. Ma la situazione è davvero così tragica o i cambiamenti linguistici di cui tanto ci scandalizziamo sono solo un’inevitabile conseguenza dello scorrere del tempo, dei costumi e dei codici? Quale ruolo può svolgere la scuola in questo senso? Ne abbiamo parlato con la stessa Mastrocola.
Che cosa ne pensa della proposta del maestro Marco Rossi Doria?
Inutile dire che sono assolutamente d’accordo. Mario Rossi Doria è un grandissimo maestro nonché una figura importante all’interno del mondo della scuola e dell’educazione. La sua proposta e l’allarme da lui lanciato sulle pagine della Stampa sono assolutamente condivisibili. Soprattutto per quanto riguarda la lingua italiana. Fosse per me reintrodurrei, oltre all’esame di quinta elementare, anche quello di seconda. Il passaggio dai primi due anni agli ultimi tre delle elementari può anch’esso essere utile.
Addirittura?
Certo. Una delle domande che mi sto ponendo nella mia “battaglia” per l’italiano è se si tratta di una crociata che sono soltanto io a condurre. Stiamo andando verso un mondo di non parlanti, non scriventi, non leggenti. Più che denunciare questo tracollo non so davvero che cosa fare. Addirittura fra i miei colleghi insegnanti c’è chi sostiene che vada benissimo così, accampando come argomentazione l’idea che il mondo inevitabilmente si trasforma e con esso i modi di comunicare. Ma mi sembra piuttosto strano che questa trasformazione ci porti a regredire fino ai linguaggi gestuali e gutturali.
Per quali motivi la scuola ha iniziato ad essere meno rigorosa nell’insegnamento della grammatica italiana?
Direi che è una somma di fattori che si sono diabolicamente intrecciati. Primo fra questi il ’68 e la sua “onda lunga”. La grammatica improvvisamente divenne di destra. Ci ricordiamo della frase «è solo questione di forma, badiamo al contenuto»? Questa divenne la logica dell’insegnamento. Il consumismo sfrenato si è poi aggiunto, portatore di una mentalità di immediatezza e quindi facilitazione di ogni cosa, anche della lingua. Terzo elemento è quello tecnologico: la comunicazione visiva sfrenata ha sacrificato il valore delle parole in sé, della lettura. Anche i messaggini sul cellulare vengono scritti seguendo un criterio espressivo minimale. La scuola non ha saputo e non sa arginare questi straripamenti dell’uso della lingua.
Molti più che alla scuola danno la colpa all’università che non sarebbe in grado di formare adeguatamente gli insegnanti, lei è d’accordo con questa analisi?
Sinceramente degli insegnanti futuri so poco o niente, quindi non mi sento di accusare gli atenei. Io parlo delle elementari, e anche delle medie, perché per esperienza diretta mi vedo costretta come insegnante di liceo a dover rispiegare quelli che appunto sono gli “elementi” della grammatica e della sintassi. E mi domando che cosa si faccia oggi alle elementari. Sicuramente non insegnano le nozioni fondamentali che sarebbe essenziale i bambini apprendano. Le elementari di oggi hanno creato una “diversamente scuola”.
Linguisti internazionali, del calibro di Noam Chomsky, affermano però che la trasformazione della lingua sia un fenomeno inevitabile e inarrestabile. È successo con il latino ad esempio dal quale sono derivate le lingue romanze. Non trova forse che ciò che lei denuncia sia semplicemente l’effetto dello scorrere del tempo e dei costumi?
Chiarisco subito un concetto: io sono totalmente d’accordo con tale posizione. Possiamo anche trovarci tutti e decidere di comune accordo che la lettera “h” davanti al verbo “avere” non si debba più mettere. Parlando francamente non importa un bel niente a nessuno di saper distinguere un complemento oggetto da un predicativo dell’oggetto. La gente parla ugualmente con o senza questo tipo di conoscenze. Quello che intendo dire è che se un alunno si cimenta quattro ore di fila a comprendere questo tipo di differenze e strutture della lingua inevitabilmente mette in atto delle strutture di pensiero compiute e piene. Questo non serve? La logica umana è fondata su questi esercizi. Così si impara a pensare, ad argomentare e via dicendo. Se noi facciamo decadere la riflessione sulla lingua smontiamo di fatto tutto un esercizio per la strutturazione del pensiero.
Se lei fosse il ministro dell’istruzione su quali aspetti riformatori punterebbe di più?
Ovviamente ho già risposto in parte. La prima operazione sarebbe una riforma totale delle scuole elementari, ripristinando dei programmi che sensatamente ritornino ai fondamenti educativi. Questa non è una guerra per rendere la vita difficile ai bambini, ci mancherebbe. Ma è assurdo ragionare solo in termini di creatività libera e senza una minima regola. Tanto più che l’età infantile dispone di un enorme potenziale di apprendimento. Quindi monitorerei in maniera assai più assidua gli apprendimenti effettivi di anno in anno. E infine verificherei con maggiore scrupolo il lavoro degli insegnanti. È inammissibile che un maestro delle elementari faccia ciò che vuole a scapito della vita futura dei propri alunni. Dicono che questa sia l’era della comunicazione. Penso piuttosto che sia l’era dei mezzi di comunicazione. La comunicazione in sé la stiamo perdendo.
(Raffaele Castagna)