I dati sulle rilevazioni degli apprendimenti in italiano ed in matematica che l’INVALSI ha svolto lo scorso anno su 5.303 scuole primarie hanno messo in evidenza la profonda differenza esistente tra i risultati raggiunti in scuole dello stesso territorio.

A parità di condizioni: stessa modalità di formazione e reclutamento degli insegnanti, stesse risorse economiche, stessi programmi, stessa variabilità interna dei risultati degli studenti, stessa area geografica, esiste una grande varianza tra i risultati delle scuole. Questa differenza tra scuole è molto più ampia al sud ed aumenta progressivamente passando dalla seconda alla quinta classe.



I numeri parlano chiaro: per Italiano nella classe seconda primaria la quota della varianza tra scuole sul totale è del 4,7 per cento al Nord, del 8,9 per cento nel Centro e del 17,5 per cento nel Sud; rimanendo sempre nell’ambito dei risultati relativi all’italiano nelle quinte classi la quota di varianza tra scuole è del 7,2 per cento nel nord, del 8,4 per cento nel centro e del 28,3 nel sud.



I dati sono simili per la matematica per toccare in quinta la punta del 37,1 per cento di varianza tra scuole del sud.

Per dirla in modo piano, in Italia, soprattutto in alcune zone, andare in una scuola o in un’altra può essere decisivo in termini di possibilità di apprendimento. A che cosa può essere dovuto questo divario?

L’indagine OCSE PISA sui quindicenni aveva già messo in evidenza un dato sulla varianza tra le scuole italiane tra i più alti al mondo. In quel caso una delle spiegazioni possibili poteva essere relativa alla differenza esistente tra i più di 800 indirizzi di studio presenti nella scuola superiore italiana. In questo caso è una spiegazione che non tiene. Anche in presenza di modelli organizzativi diversi, la scuola primaria è la stessa su tutto il territorio nazionale.



 

Occorre andare in profondità. I dati che abbiamo ci danno informazioni importanti scuola per scuola, e non solo per un campione rappresentativo come nel caso dell’indagine PISA. È la prima volta che abbiamo a disposizione queste informazioni ed è importante non lasciarle nel cassetto. Il dato sulla varianza tra scuole è, di fatto, un dato sull’ampio margine di miglioramento che le scuole possono avere. Le analisi di secondo livello che incroceranno i risultati con i dati di contesto raccolti attraverso il questionario studente, aiuteranno sicuramente ad andare più in profondità e a fare delle ipotesi per capire i motivi di questa grande variabilità, ma non basta. Occorre lo sforzo di tutti: amministrazione, scuole, mondo della ricerca, per capire e provare a suggerire azioni di miglioramento. Da subito le 5.303 scuole che sono in possesso dei propri risultati, articolati domanda per domanda, possono cominciare a interrogarsi su come migliorare.

Poter guardare, ad esempio, gli esiti in italiano sulla parte relativa alla capacità di cogliere “il senso” globale del testo e scoprire che il 68 per cento dei propri studenti è in difficoltà, non può non far nascere delle domande su come introduciamo i nostri alunni ad una lettura non superficiale dei testi. E anche se a scoprire questo dato fosse una scuola con risultati eccellenti in tutti gli altri ambiti, non potrebbe sicuramente adagiarsi.

 

 

La corsa non è tra scuole, ma con sé stessi e con il desiderio di migliorare il modo con cui insegniamo e lavoriamo ogni giorno con i nostri studenti. Nessuno può chiamarsi fuori. Il Convegno avente a tema tale rilevazione promosso oggi dalla facoltà di Statistica della Bicocca con la partecipazione del presidente dell’Invalsi dott. Piero Cipollone, dei professori Daniele Checchi dell’università di Milano, Giuseppe Catalano del Politecnico di Milano, Susanna Mantovani della Bicocca e degli onorevoli Valentina Aprea e Giuseppe Fioron su questi dati è un buon inizio di lavoro sull’argomento.

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