Il primo fatto è che i dati relativi ai risultati del primo quadrimestre 2009-2010 non sono completi. Essi sono infatti circoscritti a circa l’85 per cento dell’universo di riferimento. Ma, soprattutto, non sono disaggregati né per territorio né per indirizzo. Il che li rende poco utili a chi voglia capire e soprattutto a chi voglia elaborare e praticare delle politiche. Servono ai giornali per mostrare qualche effimero interesse per la scuola, soprattutto se possono annunciare cattive notizie.
Dai titoli dei giornali si direbbe che sugli studenti si sia riversata una pioggia di giudizi negativi dei loro insegnanti. La qual cosa riscuote una certa soddisfazione in alcuni esponenti del centro destra, che può vantarsi di aver riportato la scuola “alla serietà” e produce rimbrotti degli esponenti dello schieramento opposto. Invece di riflettere seriamente sui dati, si fa propaganda. Quali sono le ragioni che impediscono ad un Paese ricco come l’Italia di dare per tempo dati elementari, sulla base dei quali si possono anche orientare le politiche dei diversi livelli di responsabilità?
Eppure, nonostante questi limiti, se guardiamo con calma i dati, si scopre che le novità rispetto all’anno scorso non sono così eclatanti. Gli incrementi nelle insufficienze nelle varie discipline sono molto lievi. Il problema è che rimangono costanti in tutte le materie. La concentrazione dell’attenzione sulle discipline di matematica e lingue straniere è scontata: si tratta dei campi di formazione fondamentali, dove le brume, che ristagnano spesso su quello che davvero si sa, sono meno fitte.
Più significativo l’incremento in termini assoluti dei 5 in condotta, ma manca la percentuale. Anzi: poiché diminuiscono i 5 in condotta non accompagnati da insufficienze in altre materie, i più evidentemente sanzionatori, si potrebbe dire che l’istituto del 5 in condotta perde in efficacia.
Sempre osservando i dati, si legge qualcosa sugli umori del corpo docente.
È come se gli insegnanti abbiano ripreso coraggio e abbiano trovato il modo di dire ciò che pensano della situazione, accentuando il giudizio negativo sulle prestazioni in comportamento ed in apprendimento degli studenti. E questo di per sé non è un fatto negativo. Ha ragione il Ministro a sottolinearlo.
Se – se! – la condizione di grande disomogeneità degli apprendimenti e di basso livello complessivo delle scuole italiane fosse dovuta principalmente, se non esclusivamente, ad un eccesso di lassismo nei confronti delle condotte e degli apprendimenti, ci sarebbe anzi da rallegrarsi. È ben noto d’altronde che la natura umana ed anche quella dei giovani italiani è sensibile alla mitica carota, ma necessita talvolta – ahinoi! – del bastone. E appare debole l’obiezione secondo cui non è la scuola a determinare il livello etico di una società, ma che al contrario è la società che influenza in questo campo la scuola: si comincia da dove si può.
Tuttavia pensare di migliorare il clima comportamentale ed il livello di apprendimenti solo tirando i freni, con un impossibile “ritorno al futuro” interpretato da nostalgici degli anni Cinquanta sembra una visione infondatamente ottimista.
Davvero pensiamo che costituisca un deterrente di massa al disimpegno nell’apprendere la minaccia di innalzare il livello delle bocciature, essendo evidente che a questo si mira. Ora, a parte il fatto che sembra dimostrato che nella gran parte dei casi le ripetenze non incrementano il livello degli apprendimenti, anche il potere deterrente del “5 in condotta” sembra scarso nella situazione italiana.
Negli istituti superiori non è raro il caso di studenti normodotati, ma pluriripetenti, che si trascinano per anni sui banchi con il sostegno delle famiglie (che all’uopo ricorrono anche a scorciatoie nei diplomifici). Potendosi permettere economicamente di mantenere i giovani a scuola qualche anno in più, mirano all’agognato pezzo di carta che alla fine, sfinito, il sistema rilascerà. Questa realtà che è sotto gli occhi di tutti è una delle ragioni dell’immobilismo sociale italiano, perché questi comportamenti sono tipici della piccola borghesia, mentre i ceti popolari tendono a lasciar perdere subito, non tanto oggi per motivi economici, quanto per motivi culturali.
Probabilmente un deterrente maggiore sarebbero delle vere e proprie vere certificazioni di ciò che si sa e di ciò che non si sa, ad uso delle Università e dei datori di lavoro.
Ma c’è anche un altro problema. Quali sono i parametri minimamente condivisi e validati, sulla base dei quali vengono dati questi voti? Quali sono le asticelle che indicano almeno in alcuni campi fondamentali – che sono anche quelli più problematici – il livello di accettabilità cui conformarsi? Urgono cartine di tornasole per capire se gli studenti italiani sono molto somari o se gli insegnanti italiani hanno qualche problema a migliorare il livello dei loro studenti rispetto a quanto imparerebbero se studiassero da soli.