Due anni fa sono tornato a insegnare in una scuola statale, l’Istituto Tecnico per ragionieri del mio paese dopo che per dieci anni avevo lasciato l’insegnamento, ed è stata per me un’esperienza importante, dove ho potuto misurare il cambiamento avvenuto nel frattempo nella generazione di ragazzi e di giovani che abbiamo di fronte. Fino a dodici anni fa potevo illudermi di avere davanti dei ragazzi che corrispondevano in qualche modo a un modello che io avevo in testa: ragazzi tutto sommato strutturati positivamente nel loro rapporto con se stessi e con il mondo, ma passibili di qualche deviazione, di qualche errore, segnati da un disinteresse allo studio che giudicavo normale, nella logica delle cose, esposti ad una enorme confusione e incertezza, magari anche al rischio di devianze gravi, ma sempre correggibili.
Così che il compito dell’educatore sembrava essere semplicemente quello di correggere i loro errori, di rimetterli in sesto, rispetto a un modello dato per scontato. Come se il problema fosse trovare strumenti e strategie e nuovi metodi per coinvolgerli, interessarli, convincerli.
Dodici anni dopo mi sono improvvisamente reso conto che invece questa generazione di nostri figli e alunni viene da un mondo, vive immerso dentro una cultura in cui nessun modello più tiene, nulla può più essere dato per scontato, derubati proprio di quel sentimento certo della realtà cui avevano principalmente diritto.
Vivono dentro un immaginario che fa loro sentire orribilmente banale, mortalmente noioso l’ordinario, la loro vita quotidiana, che sembra non avere più spazio per alcuno slancio, per alcuna commozione, per alcuno stupore. È stato come trovarmi davanti a tanti Zaccheo, a tante Maddalena: hai voglia di provare a correggere gli errori! Non arrivi da nessuna parte, è un’impresa impossibile. Allora ho dovuto ripensare da capo al mio ruolo di insegnante e di educatore, riposizionarmi rispetto a loro, al loro vissuto, al mondo in cui vivono.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO
Ho capito che per ciascuno di loro può solo accadere Gesù, cioè può solo accadere l’avvenimento della Sua presenza, così travolgente da chiamarli Lui, uno a uno dai loro sicomori, dai loro pozzi, dalle loro strade. Nessuna strategia, nessuna nuova metodologia, nessun accorgimento pedagogico o didattico può sostituire questa suprema responsabilità: servire l’attesa del loro cuore e accompagnare la loro libertà a riconoscere la Sua Presenza.
Perché l’altra scoperta che questi ragazzi mi hanno costretto a fare è che il cuore dell’uomo è invincibile, e nessuna situazione, nessun condizionamento, neanche l’educazione più folle, per dirla con Kafka, può estirpare l’attesa della felicità, del Bene, della Bellezza. Come mi ha scritto una mia ex alunna questa estate: «In questi giorni sento più che mai di subire la vita, e così facendo è come se fossi già morta, e morire è l’ultima cosa che voglio. Il punto è che ora sono stanca, stanca di rimandare la questione: voglio affrontare ciò che devo. Non importa se dovrò soffrire, perché sono convinta che la soddisfazione e la pace che proverò quando avrò trovato quello che sto cercando sarà grande. Ora mi sento abbastanza grande da sbattere la testa contro la realtà, per quanto dura possa essere».
E prosegue con una descrizione impietosa del colpevole cinismo di tanti adulti, che diventa in lei e nei suoi coetanei una mortale esperienza di solitudine e di abbandono: «Quando ne parlo con le persone che mi stanno vicine nessuno mi capisce, mi dicono che non ho niente di cui lamentarmi perché ho tutto ciò che mi serve per vivere. Quante cavolate! La cosa peggiore è che mi sento incompresa, e finisco per pensare che questo problema riguardi solo me, sia l’esito dei miei complessi. Per la prima volta incontrandoti mi sono sentita normale, e questo mi ha salvato perché stavo convincendomi di essere pazza. So che mi resta molta strada da fare, e sarei onorata se tu volessi farne un pezzo insieme a me».
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO
E allora, se si prende sul serio il loro cuore, se si ha il coraggio di scommettere tutto sulla loro libertà come ci ha insegnato don Giussani, può accadere che una ragazzina di 15 anni, incontrata tra i banchi e invitata ad una vacanza di Gs possa dire: «Io non ho mai creduto, non sono mai stata in una chiesa, la mia famiglia è atea, nessuno mi ha mai parlato di queste cose, però in questa vacanza mi sembra di avere intravisto Qualcosa che non avevo mai visto. Io adesso questa Presenza la devo poter rintracciare nelle cose di ogni giorno, nello studio, nelle amicizie, nei miei interessi… e vorrei poterci parlare, e volevo chiedervi se qualcuno di voi può insegnarmi a parlare con Dio, perché io non Lo conosco. Ieri sera ho provato a parlare con Lui prima di dormire ma sono riuscita solo a dirgli: ciao, Dio!».
Chi potrà insegnare a questa ragazzina, e a questa generazione, a parlare con Dio? Solo adulti che sappiano rendere testimonianza della loro fede, del Bene che ha raggiunto la loro vita, della passione per il reale di cui questo incontro li ha resi capaci. Come ha detto più volte il Santo Padre l’educazione è questione di testimonianza. E quando questa testimonianza è messa in atto può accadere di vedere radunati, come è successo la scorsa domenica 7 marzo, al Teatro Dal Verme di Milano, più di mille studenti delle superiori, a dialogare sulle esigenze della vita, sulla natura dell’esperienza, sulla razionalità della fede.
E’ stato veramente impressionante: i ragazzi di Gioventù Studentesca di Milano hanno voluto questo gesto per dire ai loro compagni e amici di tutte le scuole di Milano: «Cristo è presente. Al di là di ogni polemica sui crocefissi, al di là di tutta la confusione e di tutte le polemiche, Cristo è presente e noi ne facciamo esperienza». Che i ragazzi ricomincino con alcuni loro adulti a muoversi così mi sembra un grande segno di una strada cominciata, di una educazione possibile.
(di Franco Nembrini, insegnante)