L’intervista rilasciata il 25 febbraio scorso a questo giornale da Paola Mastrocola pone in evidenza delle lacune della nostra scuola. Alcune sottolineature sono condivisibili ed invitano a serie ed oneste riflessioni. Si prova qui ad analizzare alcuni dei punti emersi dall’intervista.

L’articolo di Mario Rossi Doria apparso su La Stampa (e ripreso dall’intervistata) che invoca il ripristino dell’esame di quinta primaria pone il dito su una questione educativa prima ancora che di istruzione. L’esame a fine ciclo scolastico – o a fine di un segmento come rappresenta la quinta classe della primaria – prima ancora che un rito burocratico e sanzionatorio è, forse, la prima occasione da offrire agli alunni per mettersi alla prova e per misurarsi “oggettivamente” con le proprie potenzialità e le proprie debolezze. È, insomma, un momento sereno ma serio in cui l’alunno è messo di fronte alla consapevolezza dei processi e dei prodotti che il suo bagaglio cognitivo e il suo impegno hanno consentito. Quando si parla (e molto) di autovalutazione da parte degli alunni si dimentica che un’autovalutazione che non è seguita da una proposta che indichi una strada su cui proseguire rischia di rimanere fine a se stessa e autoreferenziale. Il ragazzino da solo non ce la può fare.



Si dovrebbe rivedere la modalità con cui veniva strutturato l’esame di quinta perché non sia un momento censorio invece che “educativo” e orientativo. Come affermava il grande Eduardo De Filippo, “gli esami non finiscono mai”. Il problema è che nella nostra società e nella nostra cultura, parafrasando, gli esami non iniziano mai! Non iniziano mai (o molto tardi) nella scuola ma anche nella vita. È difficile per genitori ed insegnanti accettare che fin dai primi anni della scuola dell’infanzia i bambini, e poi i ragazzini, debbano misurarsi con delle piccole grandi fatiche. Nella scuola ciò si traduce nell’accettare e giustificare qualunque livello di esito di un compito, accettazione dettata dal timore di non “bloccare” l’alunno nella sua crescita ed autostima. Ciò nasce in buona parte da fraintendimento di concetti e quindi pratiche di individualizzazione prima e di personalizzazione poi nei percorsi di insegnamento e/o apprendimento. Ogni alunno, tutti gli alunni, per quanto apparentemente indifferente alla scuola, si aspetta un giudizio sulle proprie performances, perché un giudizio, anche se negativo ma dato con atteggiamento non sanzionatorio, fa crescere nell’alunno la consapevolezza di sé.



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Rispetto al porre sotto “esame” conoscenze e processi cognitivi degli alunni anche nella scuola primaria si stanno facendo dei notevoli passi avanti. Non va dimenticato che l’INVALSI da alcuni anni ha messo a punto organizzazione e strumenti per una valutazione su scala nazionale di conoscenze ed abilità cognitive in italiano e matematica anche per le classi seconde e quinte del segmento elementare. E se lo scorso anno scolastico la rilevazione era lasciata all’adesione spontanea delle scuole, per l’anno scolastico in corso la somministrazione delle prove avverrà obbligatoriamente su tutta la popolazione scolastica. E non è cosa da poco. Pur rimanendo il problema di quali conoscenze e processi siano oggetto di valutazione, considerato che non essendoci più programmi “prescrittivi” ma curricoli ogni scuola può puntare su alcuni elementi piuttosto che altri, in mancanza di standard nazionali le prove INVALSI possono di fatto trasformarsi in punti di riferimento per gli essenziali di italiano e matematica. Senza dimenticare che lo stesso INVALSI restituisce gli esiti delle prove scuola per scuola e classe per classe, consentendo così ai docenti di “registrare” l’efficacia della loro azione didattica e del livello dei propri alunni paragonato a indici regionali e nazionali.



Ciò detto, ripristinare gli “esami” in quinta primaria può rivelarsi un vantaggio per alunni e docenti a determinate condizioni.

Si devono rivedere le modalità con cui nel tempo è stato strutturato l’esame.

L’esame deve assumere un carattere di sviluppo della persona togliendo ad esso l’intenzionalità sanzionatoria.

Ciò presuppone che l’esito non venga restituito agli alunni solo in termini di voti numerici, ma in colloqui orientativi che indichino i traguardi raggiunti e i passi da fare.

L’esame deve andare a scandagliare non solo le conoscenze apprese dagli alunni ma anche i processi e le strategie cognitive che l’alunno sa mettere in atto. Ciò comporta che molta attenzione e competenza vada data alla costruzione delle prove che non necessariamente devono avere la forma di “scritti” per italiano e matematica e di interrogazione per le discipline così dette “di studio”.

 

Il secondo tema trattato nell’intervista riguarda la lingua italiana e come essa è insegnata/appresa nella scuola. La questione è molto complessa e meriterebbe molto spazio. Si tenta qui di dare un “indice” dei nodi più rilevanti.

La lingua, qualunque lingua ma in particolare la lingua materna, si apprende se si è immersi in un “bagno di lingua”. Ora, il bagno di lingua in cui sono immersi i bambini fin dalla tenera età è un mare con frangenti martellanti ma mono-toni. È un linguaggio sincopato, pieno di ellissi e frasi monche, con un registro familiare e colloquiale.

 

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A casa spesso i bambini hanno poche occasioni di esprimersi con diverse funzioni linguistiche. I genitori sono di corsa, usano molto spesso un linguaggio “regolativo” (fai questo, vestiti…). Anche a scuola si può incorrere in questa restrizione dell’uso del linguaggio. Il linguaggio dell’insegnante deve essere plurifunzionale, ricco (come deve essere in misura diversa anche quello in famiglia) e corretto. Ciò investe il campo del lessico e della morfosintassi.

La correttezza linguistica è data dal rispetto delle regole che una comunità di parlanti assume come necessarie per comprendersi e comunicare. Le regole ortografiche e grammaticali possono mutare nel tempo (la lingua ha anche una dimensione diacronica): l’importante è che siano condivise e rispettate (Leggere per credere il godibile testo di Andrea Debenedetti Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana, Laterza).

Tullio De Mauro anni fa aveva individuato il vocabolario di base che comprende più o meno mille parole. Quanti degli adulti usano un linguaggio variegato? Non si tratta di usare parole altisonanti, a volte arcaiche, ma di regalare ai bambini parole che descrivano con le dovute sfumature la realtà.

I bambini non usano necessariamente poche parole ( a volte addirittura le inventano). I bambini e i ragazzini però usano nello stesso modo la lingua a prescindere dal destinatario. Un SMS, una lettera, un testo vengono stilati con le stesse modalità e lo stesso registro, mostrando una debolezza linguistica ma soprattutto pragmatico-comunicativa.

La grammatica che nelle “Indicazioni”, ma già nei Programmi del 1985, viene definita “Riflessione linguistica” è importante nella misura in cui non viene presentata come un insieme di definizioni da imparare a memoria senza comprenderle. La grammatica, almeno alla scuola primaria, deve essere affrontata secondo un metodo induttivo che solleciti gli alunni a formulare ipotesi, congetture, a sviluppare processi logico-cognitivi; più avanti negli anni si deve giungere progressivamente ad una classificazione e ad una categorizzazione dei fenomeni linguistici, ma sempre usando il pensiero. È un problema di metodo e di strategie didattiche.

A piè di pagina di queste brevi note, sia consentita una difesa della scuola primaria la quale, con tutti i limiti che le si possono attribuire, si è dimostrata anche in indagini internazionali il livello di scuola i cui alunni hanno raggiunto buoni risultati in lingua italiana. La debolezza delle conoscenze e competenze linguistiche degli alunni non è determinata da un unico livello scolastico. Forse servirebbe un dialogo professionale tra i vari segmenti scolastici per capire e condividere i gradienti attraverso cui si costruiscono e si consolidano gli “essenziali” per la padronanza della lingua.