Da più parti viene lanciato un grido d’allarme sul livello (basso, bassissimo) dell’educazione linguistica dei giovani e anche dei non più giovanissimi nel nostro Paese; si parla addirittura (Mastrocola dalle colonne de La Stampa) di Emergenza Linguistica Nazionale, non si capisce se più grave dell’emergenza educativa o se punta di iceberg di quest’ultima.



Se non la soluzione – possibile solo nel lungo periodo – quanto meno l’affronto dell’emergenza non può non passare, è ovvio, da un ritorno ad un insegnamento scolastico serio e intenso della “grammatica”.

Ma proprio qui si annida il vero problema: come impartire l’insegnamento della grammatica ai nostri studenti, in modo che si traduca in conoscenza e competenza durevolmente acquisite? È evidente infatti a chi pratichi il mondo della scuola che non è l’insegnamento linguistico a essere venuto meno: è venuta meno l’efficacia di un metodo tradizionale pur glorioso, ma con tutta evidenza non più adeguato alle mutate condizioni cognitive, culturali e sociali dei nostri giovani.



Non è possibile rispondere a tale questione nello spazio di un solo articolo, tuttavia paiono interessante oggetto di riflessione e di dibattito le conclusioni-proposte emerse dal recente convegno nazionale del Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) tenutosi a Padova dal 4 al 6 marzo scorsi, dall’accattivante titolo La grammatica a scuola. Quando? Come? Quale? Perché?

I numerosi interventi, di insegnanti e studiosi – tra i quali spiccano i nomi di Tullio De Mauro e Luca Serianni – hanno messo in luce i seguenti punti:

1. la necessità dell’elaborazione di un curriculum di educazione linguistica progressivo verticale, e non ricorsivo, dalle elementari all’università, che permetta agli studenti di affrontare aspetti e argomenti adeguati allo sviluppo cognitivo della loro età (“Perché i manuali delle elementari devono contenere – pena il non essere scelti dalle maestre – la definizione di antònimo, se poi neppure all’università gli studenti di lettere sanno cosa sia questo misterioso oggetto?” ha osservato il professor De Mauro);



2. non multa, sed multum: gli argomenti di studio vengano presentati in maniera essenziale, ma solida e chiara: il manuale di grammatica deve appunto essere un manuale, non una trattazione enciclopedico-scientifica delle ultimissime acquisizioni (o pseudo-acquisizioni) della linguistica contemporanea;

3. questo secondo punto richiede che insegnanti e manuali siano il più possibile preparati gli uni e rigorosi gli altri (metodologicamente ineccepibili e purtroppo proporzionalmente impietosi sono  stati i risultati dell’esame condotto dal professor Serianni sui più usati manuali di grammatica in uso nella scuola secondaria di primo e secondo grado).

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Dietro e prima tutto ciò, c’è però, a mio avviso, la questione fondamentale, dalla quale partire per stimolare e motivare i ragazzi all’apprendimento della grammatica: perché vale la pena studiarla? Qual è l’incremento di umanità che se ne trae?

Vale la pena studiare la grammatica se si ha chiaro – e se lo ha chiaro soprattutto il docente – che essa non è un astratto modello autoreferenziale, fatto di categorie, sottocategorie, oggetti dai contorni sfocati, che rendono molto meno chiaro e assai complicato ciò che tutti usiamo in genere con una certa competenza pragmatica. La grammatica ha invece a che fare con la varietà dei mezzi linguistici a disposizione per esprimersi: può e deve portare chi la padroneggia ad incrementare il proprio rapporto con la realtà, nei termini di una maggiore capacità, verbale perché innanzitutto logica, di comprendere e dire se stessi e il mondo.

 

Occorre in altre parole superare la divisione tra “teoria” (il modello grammaticale di riferimento, spesso astratto) e la “pratica”, che, se rimane non consapevole e istintiva, spesso risulta pesantemente errata e non produce crescita nel soggetto. A livello di manualistica scolastica, questa divisione è ben rappresentata dalla realizzazione delle grammatiche in due volumi: l’uno, più corposo, presenta “la grammatica” (le regole) ed il lessico; l’altro, generalmente più snello, fornisce prescrizioni per la realizzazione dei testi, sia verbali che scritti. Il messaggio implicito in questa scelta editoriale è molto chiaro: le regole che presiedono al funzionamento dello strumento lingua non hanno diretta e immediata influenza sulle realizzazioni pratiche degli oggetti linguistici (testi).

 

Oggetto della grammatica, e dunque del suo insegnamento, è invece il discorso, cioè una costruzione linguistica che funziona (coesa), conforme all’esperienza ragionevole delle cose (coerente), riferita ad una realtà condivisa, e portatrice di una intenzionalità. Lo studente deve essere messo in grado di comprendere e realizzare “discorsi” nel senso appena citato. Lo potrà fare se sarà condotto alla consapevolezza, teorica e pratica, che la forma delle parole (la morfologia), è strumento per la realizzazione di un significato (semantica) o di una struttura linguistica (sintassi), e che i nessi tra le parti e le funzioni delle parti rispetto al tutto sono più importanti dei singoli “pezzi” che le realizzano.

 

Il significato, come l’esperienza di cui è traduzione, non è classificabile; esso è però veicolato da elementi linguistici: una grammatica che voglia avere una validità scientifica e didattica non si ridurrà quindi ad una serie di definizioni nelle quali costringere l’infinita varietà del reale (cioè delle sue realizzazioni linguistiche), ma, partendo dall’osservazione dell’esperienza, condurrà alla consapevolezza e padronanza degli strumenti che il significato permettono di esprimere.

  

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