Il recentissimo Rapporto sulla scuola in Italia 2010 della Fondazione Agnelli scuote un tabù profondo della politica, degli intellettuali, dei mass-media: che il sistema dell’istruzione pubblica statale, organizzato in modo centralistico e omogeneo su scala nazionale, garantisca in quanto tale l’eguaglianza dei ragazzi italiani e favorisca l’elevamento sociale dei più poveri. Da fonte non sospetta arrivano, viceversa, delle contro-verità largamente documentate. Nessuna è nuova per questo giornale, che ha fatto di queste contro-verità la propria bandiera. Il Rapporto ne conferma, per parte sua, la fondatezza incontrovertibile: il modello statale-centralistico vecchio di 150 anni è sotto scacco.
Il primo capitolo mette al centro dell’analisi la fenomenologia dei divari, cioè delle ineguaglianze, delle iniquità, dei divides. Il primo di questi è il digital divide, quello che separa gli insegnanti dai loro alunni, che si trovano molto più avanti nell’uso delle Ict (Information Communication Technologies). E qui non è principalmente questione di computer, quanto di preparazione degli insegnanti. Solo 45mila insegnanti su 819mila si stanno formando alle competenze digitali. Così è crescente l’asimmetria tra l’uso delle Ict che i ragazzi fanno nella vita quotidiana e quello nella scuola. Risultato: le distanze tra la vita reale e quella scolastica si allungano.
Non viene praticata la metodologia dei percorsi didattici personalizzati, che le Ict favoriscono in modo straordinario. Certo, è difficile per una generazione di insegnanti, che ha raggiunto l’età media dei 52 anni, comprendere le potenzialità didattiche delle Ict e farne uso appropriato. Il “divario di genere” appare, viceversa, azzerato, salvo che per gli apprendimenti scientifici. Nella società, nell’economia, nella politica è ancora molto forte. Ma questa è un’altra storia! Il “divario sociale” è rimasto: “la scuola italiana sembra fallire nell’obiettivo di garantire pari opportunità di accesso a qualsiasi tipo di istruzione superiore e pare invece configurarsi come uno strumento di cristallizzazione delle posizioni sociali consolidate”. Il “divario degli indirizzi di studio” resta grave, ed è causa ed effetto di quello sociale: tra i liceali il 49% riesce a raggiungere la laurea, tra gli iscritti ai tecnici il 12% e tra quelli dei professionali appena il 5 per cento.
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Il “divario tra le scuole” – la varianza – in Italia è al 51%, in Finlandia al 6 per cento: scuole centrali, di periferia, di campagna… Ma è molto più che la classica macchia di leopardo: è una frattura sovradeterminata da quella “territoriale” Nord-Sud. Il “divario negli apprendimenti” è la conseguenza di tutti quelli precedenti. Il “divario territoriale”: il solo fatto di vivere al Sud, a parità di offerta formativa, comporta 68 punti di svantaggio nel test Pisa rispetto al Nord. Corrispondono ad un anno e mezzo di ritardo di scuola rispetto al Nord. Nelle Regioni del Sud un terzo dei quindicenni non raggiunge la soglia minima delle competenze internazionalmente definite. Il solo fatto di abitare al Sud genera impari opportunità! Il “divario interetnico”: gli studenti stranieri, che raggiungono ora l’8%, hanno ridotte opportunità educative. Mostrano tassi di ripetenza consistenti già nella secondaria inferiore (6,3 contro 2,7% degli italiani) e crescenti alla superiore (9,2 contro 6,9%). Al segmento più fragile della secondaria superiore – quello degli istituti professionali – si iscrive il 41% degli stranieri contro il 19,4 degli italiani.
L’altro tabù è quello dei costi della scuola di Stato e di quella paritaria: la prima, a buon mercato, per tutti, la seconda solo per i ricchi? Uno sguardo a-ideologico alle cifre conferma l’esatto contrario: il costo per alunno nelle più costose ed esclusive scuole private è assai inferiore a quello delle scuole statali, se alle spese consolidate statali, regionali e degli enti locali (6.620 euro per studente) si assommano quelle dei trasferimenti dei privati (per lo più famiglie, per 89 euro a studente) e quelle degli oneri figurativi stimati (686 euro per studente delle statali).
Tali oneri figurativi sono quelli che servirebbero a pagare i canoni di affitto, se non si utilizzassero a titolo gratuito i circa 100 miliardi di immobili stimati del demanio, che ha rinunciato a incassare gli affitti. Il totale fa 7.400 euro. L’alunno della scuola paritaria costa alla sua famiglia poco più di 5.000 euro. E tuttavia la sua famiglia finanzia con la fiscalità generale la scuola di stato.
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Quanto alle proposte di affronto della situazione di crisi del sistema educativo, la Fondazione Agnelli riprende ciò che il dibattito riformista di questi anni ha elaborato, relativamente alle politiche del personale (reclutamento diretto da parte delle scuole, carriera, differenziazione retributiva ecc.), alla valutazione delle scuole, del personale docente e dirigente, alla politiche di “quasi-mercato” fortemente legate a iniziative del territorio sull’esempio americano o inglese, alle politiche di sussidiarietà.
La proposta principale con cui si misura il Rapporto è quella del “federalismo scolastico”. Esso si basa su due pilastri: l’Accordo Stato-Regioni per attuare il Titolo V della Costituzione e il federalismo fiscale. In forza del primo, lo Stato determina le norme generali, i principi fondamentali e i livelli essenziali delle prestazioni, da definire congiuntamente agli Enti locali, finanziati dallo Stato ed erogati dalla Regioni come input: organici, curricula, dimensione delle classi. Alle Regioni spettano l’organizzazione e la gestione della rete scolastica. Il personale della scuola rimane alle dipendenze dello Stato. In base al secondo, i livelli essenziali delle prestazioni sono finanziati integralmente dallo Stato, sulla base del fabbisogno e costo standard, ovvero di un criterio di efficienza.
Il Rapporto teme il cosiddetto “federalismo per abbandono”: che lo Stato lasci a se stesse le Regioni più deboli. Perciò propone che il federalismo si basi su “obbiettivi quantificabili di output”, che le Regioni si impegnano a raggiungere e lo Stato a finanziare, utilizzando i 3,2 miliardi annui che si risparmierebbero grazie al federalismo fiscale. Gli output proposti sono: un livello di competenze minimo – misurato dallo Stato – per almeno il 95% degli studenti di 16 anni della Regione; una riduzione del tasso di dispersione al di sotto del 10%. In caso di fallimento delle Regioni, si può arrivare, dopo alcuni anni, al commissariamento. La parola passa, ancora una volta,alla società, alla cultura, alla politica. Ma, innanzitutto, all’universo scolastico.