Quando mi si chiede di esprimere un parere sulle varie indicazioni relative alla riforma dei cicli, devo sempre superare una certa riluttanza a rispondere. Cinque ministri fa, sono stata coinvolta nel lavoro della Commissione dei Saggi che elaborarono le linee dei saperi essenziali, e ne porto ancora le cicatrici. Qual è allora il mio personale parere su queste prime Indicazioni, che per la stesura definitiva terranno conto degli esiti di un’ampia consultazione, che nel caso nostro diede origine a due ponderosi volumi che quasi nessuno lesse?
I tre criteri guida indicati da Giorgio Chiosso (la valorizzazione dell’autonomia, la responsabilizzazione degli insegnanti, il processo di crescita della persona come obiettivo della scuola) mi trovano d’accordo, ma richiedono provvedimenti tempestivi e diffusi in termini di formazione iniziale e in servizio, contratto di lavoro, finanziamento delle scuole, sistema di valutazione. A oggi e senza aiuto, secondo me, non più del 20 per cento delle scuole secondarie è in grado di attuare pienamente la progettazione autonoma delle azioni educative che “traducono i nuclei essenziali e irrinunciabili fissati dalle Indicazioni”.
Mi sembra positiva la deliberata scelta di un linguaggio piano e comprensibile, anche se a tratti la semplificazione sfocia in un eccesso di genericità, soprattutto nell’indicazione degli obiettivi specifici dei singoli licei, e restano non poche tracce del buon vecchio programma prescrittivo. Il desiderio di costruire un percorso coerente collegando la scuola secondaria con quel che sta prima e dopo mi pare lodevole, ma andrebbe riproposta, come negli istituti tecnici, una progettazione sui quattro assi previsti per la scuola di base.
Vedo tre elementi di possibile debolezza nelle indicazioni:
1. al di là delle affermazioni di principio, ancora una volta si trascura l’unitarietà del processo di insegnamento /apprendimento, e si oppone all’eccesso di valorizzazione dell’apprendimento un recupero, abbastanza tradizionale, delle tematiche legate all’insegnamento, e per di più un insegnamento tutto centrato sulla dimensione cognitiva, ignorando le acquisizioni più recenti delle scienze educative.
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2. I licei (ma anche gli istituti tecnici, in misura di poco minore), non tengono conto delle profonde trasformazioni che le tecnologie hanno portato in questo processo, modificando in modo radicale e probabilmente irreversibile gli ambienti di apprendimento. Pare evidente che oggi il modo e i luoghi in cui i ragazzi imparano non sono più quelli della mia generazione, ma nemmeno quelli della generazione dei quarantenni, che pratica gli ambienti mediali ma non ci è cresciuta dentro. Questo non significa abdicare al rapporto educativo in favore della LIM (lavagna multimediale interattiva, ndr): possiamo trasmettere contenuti del tutto tradizionali in modo del tutto tradizionale, ma dobbiamo tenere conto che il mondo in cui vivono i ragazzi a cui li trasmettiamo è cambiato irreversibilmente.
3. Da ultimo, mi pare che l’attenzione ai contenuti abbia penalizzato troppo il tema delle competenze, che sta certamente diventando una specie di coperta lunga buona a tutti gli usi, ma non può essere ridotto né ad una formuletta che ne sottolinea solo gli aspetti operativizzati, né ad una pur necessaria elaborazione personale successiva alle conoscenze. A livello europeo, è su questo che si fanno i confronti, e nel nostro paese gli istituti tecnici sono tutti centrati su di una progettazione per competenze: non mi pare possibile immaginare una maggiore integrazione fra indirizzi se si esclude questo fondamentale elemento. C’è una certa confusione fra conoscenze, abilità e competenze, con una visione riduttiva che vede queste ultime come estranee ad una cultura “alta” (si veda la riduzione, negativa, dei laboratori).
Infine, vorrei esprimere una personale preoccupazione: mi pare che la riforma stia costituendo un’ulteriore occasione per l’implacabile tendenza degli italiani a dividersi in guelfi e ghibellini, in questo caso fra sostenitori del Contenuto e fautori del Metodo, quasi fossero due partiti politici o due squadre sportive, e non due componenti irrinunciabili tra cui cercare un equilibrio. Sarei piuttosto d’accordo con Diane Ravitch, una politologa americana, secondo cui “abbiamo dimenticato che una persona non può pensare criticamente, se non ha nulla intorno a cui pensare, paragonando e sintetizzando quello che ha imparato”.