Come evidenziato da molti, anche su queste pagine, il disegno di legge di riforma all’esame del Parlamento potrebbe costituire un’occasione di positivo rinnovamento per l’Università italiana. Credo tuttavia che esso comporti anche dei notevoli rischi, che non devono essere sottovalutati. La logica del “è un primo passo, che va incoraggiato a prescindere…”, del “si può fare meglio, ma…” è infatti molto pericolosa. Il dibattito da un po’ di tempo langue e credo che si debba riprendere prima che tutto si cristallizzi in una norma di legge.



Chiarisco subito quale è la mia principale preoccupazione: se non nelle intenzioni del Ministro, sicuramente nella percezione di parte di un’opinione pubblica che ha sentito ogni male del mondo accademico in questi anni, alcune delle proposte in campo sono interpretabili come una riduzione degli spazi di autonomia dell’Università, che sarebbe chiamata a dar conto all’esterno di ciò che fa, perché ha esercitato con deplorevole arbitrio il proprio potere discrezionale.



Ebbene, tale eventuale riduzione di autonomia confligge con la natura stessa dell’Università come comunità di persone impegnata nella ricerca e in una missione educativa, poiché per il perseguimento efficace di tali scopi, come cercherò di argomentare, l’autogoverno è necessario.

Il mio contributo si collega all’articolo di Lorenza Violini su il Sussidiario dello scorso 29 ottobre, che nel d.d.l. rileva una violazione del principio di sussidiarietà, in particolare nella sua dimensione verticale (centro-periferia). Io vorrei porre l’accento sulla sussidiarietà orizzontale, che afferma il primato di iniziativa della società civile e delle comunità che la costituiscono sulle opere finalizzate a rispondere ai bisogni e alle aspirazioni dell’uomo. Per esercitare efficacemente tale primato sono necessari strumenti di autogoverno, che consentano di formare, sviluppare e conservare l’identità, senza la quale non c’è iniziativa innovativa e creatrice.



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L’Università, qualunque sia la modalità, pubblica o privata, di finanziamento della sua attività, è un soggetto di questo tipo: in essa si esercita un primato di iniziativa solo se è attiva una comunità scientifica fondata sul mutuo rispetto di studiosi che, nonostante una dialettica a volte asperrima, si ritengono reciprocamente in grado di individuare gli obiettivi possibili e di valutare i risultati del loro lavoro.

I delicati equilibri della governance e la capacità di esercizio della discrezionalità di tale comunità scientifica debbono essere salvaguardati. Come sostenuto recentemente in un commento del Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio, anch’esso pubblicato sulle pagine de Il Sussidiario, occorre evitare che si costruisca «un sistema talmente perfetto (sulla carta) da non avere bisogno della libertà degli uomini».

Speriamo tutti che l’iter di approvazione del provvedimento e l’esercizio concreto di quell’abbondante dotazione di deleghe legislative che lo caratterizzano possano smentire in radice queste preoccupazioni. Per motivare le ragioni dell’allarme, bastino tuttavia tre esempi.

Il primo. Il d.d.l. affida a decreti ministeriali il compito di definire criteri, parametri e modalità per la valutazione dei docenti e dell’attività didattica e di ricerca da loro svolta e disciplina l’impegno dei professori attraverso la quantificazione di un monte ore complessivo minimo. Di fatto sembra che debba essere il Ministro a stabilire cosa significhi essere bravi ricercatori e docenti nelle diverse aree disciplinari.


 

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Il tutto utilizzando il più possibile criteri oggettivi, perché si richiede che il processo di verifica sia trasparente e comprensibile anche agli esterni: le pubblicazioni dunque non si leggono, si contano o si “pesano”. Ma i prodotti della ricerca scientifica non sono una merce qualsiasi, il cui valore si può facilmente misurare. E poi, per avere la certezza che un professore lavori spingendo in avanti la frontiera della conoscenza, siamo sicuri non ci sia niente di meglio che contare le ore durante le quali sta seduto alla scrivania?

Il secondo esempio riguarda l’accorpamento dei settori scientifico disciplinari nei quali sono raggruppati i docenti a seconda delle rispettive aree di indagine scientifica. Il provvedimento non sembra finalizzato a promuovere una visione più generale del sapere, ma a rendere più numerosi gli afferenti a ciascun settore così da impedire che la governance interna e il reclutamento si basino sulla conoscenza personale. Si sa: conoscere personalmente significa inevitabilmente fare dei favoritismi; non per nulla ci è stato di recente ricordato che siamo la patria del “familismo amorale”.

 

Molto meglio mettersi ad un’anonima distanza. Con buona pace di chi ricorda con nostalgia i tempi in cui la cooptazione nella professione accademica (sì, cooptazione, l’unica modalità sensata di reclutamento che viene utilizzata nelle accademie di tutto il mondo) si basava su una conoscenza a 360 gradi del profilo dello studioso da parte della comunità di riferimento.

Terzo esempio è quello degli interventi in tema di articolazione interna dell’Università che prevedono l’attribuzione al Dipartimento, e non alla Facoltà, delle funzioni finalizzate alla ricerca e alla didattica, così come un tetto massimo al numero di facoltà che si possono costituire all’interno di ogni singolo Ateneo.

 

 

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Il modello organizzativo di riferimento sembra essere quello anglo-sassone, nel quale le facoltà sono più un ambito di coordinamento generale che un soggetto dotato di autonomo potere decisionale. Senza entrare qui nel merito di pregi e difetti dei diversi modelli organizzativi, credo sarebbe di gran lunga preferibile lasciare alla comunità accademica di ogni singolo ateneo la decisione circa il modello che ritiene più idoneo al perseguimento delle proprie finalità.

Certo, concedere autonomia fa correre dei rischi e l’Università non sempre ha dato prova di virtù. Ma riconoscere tali rischi non può, anzi non deve, condurre a rinunciare, di fatto anche se si afferma il contrario, all’autonomia.

Non credo che l’Università italiana sia in condizioni talmente disastrate da richiedere un commissariamento. Ma, se lo fosse, è bene chiarire che mettere l’Università alle dipendenze di soggetti esterni e toglierle la facoltà di autogoverno significa intaccarne l’essenza.

Anticipo già le obiezioni di chi dirà: “ma in quest’ottica l’Università è autoreferenziale”. Verrebbe da dire: “Sì, l’Università è in larga misura autoreferenziale e non può essere altrimenti!”. Più prosaicamente, se si vuole cercare di correggere le distorsioni ed evitare gli abusi è preferibile accelerare sulla strada dell’autogoverno e non ridurne gli spazi: una reale autonomia anche finanziaria, sul fronte delle uscite e delle entrate (comprese le tasse universitarie), consentirebbe poi di valutare dai frutti come il potere discrezionale è stato usato. Come alternativa al controllo invasivo statalista e in una linea effettivamente sussidiaria che rispetta il ruolo delle comunità. Anche di quelle accademiche.