Non so quanto sia casuale il fatto che l’Osservatore Romano abbia pubblicato il 26 marzo, in concomitanza con la diffusione delle Indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento dei licei, un inedito del 1917 sull’educazione di Pavel Florenskij, teologo, matematico, fisico, ingegnere elettronico, studioso di estetica e di simbologia, fatto fucilare da Stalin nel 1937. L’articolo propone una concezione del processo di insegnamento come “modo per insegnare attraverso l’evidenza e addirittura sperimentalmente un metodo di lavoro”. La lezione, dice Florenskij, deve “creare il gusto della scientificità, dare l’«innesco», il lievito dell’attività intellettuale. Non è tanto un principio nutritivo quanto essenzialmente fermentativo, cioè tale da portare la psiche dell’ascoltatore a uno stato di fermento. Questo effetto fermentante colloca la lezione all’estremo opposto dell’enciclopedia, del libro di testo, del vocabolario, il cui ruolo è esattamente quello di fornire materia per la fermentazione”.



Ci si potrebbe chiedere quanto l’impianto proposto dalle nuove Indicazioni sia in grado di promuovere questo «effetto fermentante». Quello che è certo è che esso, come hanno già rilevato Luisa Ribolzi, Tiziana Pedrizzi e Claudio Gentili, presenta una certa confusione fra conoscenza, abilità e competenza. A proposito di quest’ultima mi ha sorpreso l’osservazione di Chiosso, secondo la quale “è una nozione che può presentare dei rischi. E il primo di questi è senz’altro un eccesso di proceduralismo: che facilita il lavoro degli insegnanti, ma che rappresenta certamente una delle tante forme dell’anticultura di oggi”.



Stimo molto Giorgio Chiosso, con il quale ho condiviso l’esperienza all’interno del Gruppo di lavoro istituito nel 2001 dal ministro Moratti, ma questo suo modo di intendere le competenze come estranee a una cultura alta mi sembra eccessivamente condizionato dalla vulgata di documenti, ufficiali (purtroppo anche dell’Unione europea) e no, che le presentano, riduttivamente, come la somma di sapere e saper fare, il risultato di una sorta di spericolato «equilibrismo alchemico» ottenuto attraverso un sapiente dosaggio di conoscenze e abilità, con una «spruzzatina» di attitudini personali, sociali e metodologiche. Se riferita a questo tipo di «ricette» l’osservazione di Chiosso può essere considerata ragionevole e condivisibile.



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Una commissione ministeriale che si occupa della riforma dei licei dovrebbe però andare al di là della vulgata e riferirsi alle acquisizioni più recenti in campo scientifico, che hanno evidenziato i limiti e i rischi di un insegnamento incardinato sulla sola dimensione cognitiva, e mostrato quanto la mente sia profondamente «incorporata», incardinata nel nostro corpo. Ne scaturisce un sincronismo tra agire, pensare e parlare che mette in crisi l’idea classica di un processo di elaborazione delle informazioni sensoriali in entrata che, sviluppandosi in modo lineare, si conclude con la produzione di un’uscita motoria, di un’azione. Quest’ultima, invece, non è l’esito finale e la meccanica dell’esecuzione del processo percettivo, ma è parte integrante di questo processo e inscindibile dallo stimolo sensoriale, in quanto contenuta in esso. Su questi risultati si fonda una fisiologia dell’azione che conferisce inedita dignità teorica alle operazioni concrete, alla manipolazione, a tutto ciò in virtù del quale, come scriveva già Leopardi in una profetica pagina dello Zibaldone, “sentiamo corporalmente il pensiero”.

 

Altro che l’idea della competenza come somma di un prima, che è il sapere, e di un poi, che è il saper fare, della conoscenza a cui si aggiungono in seguito le abilità, propagandata dalla vulgata di cui sopra. Qui siamo di fronte a un «vedere con la mano» che considera la percezione un’implicita preparazione dell’organismo a rispondere e ad agire, che le conferisce, di conseguenza, il compito di selezionare le informazioni pertinenti ai fini del corretto inquadramento e della soluzione di un problema, e che attribuisce al sistema motorio un ruolo attivo e decisivo anche nella costituzione del significato degli oggetti. Da questo punto di vista l’obiettivo della formazione integrale della persona in quanto unità di corpo e mente, di cognizioni ed emozioni, di saperi e decisioni cessa di essere solo un appello retorico e acquista uno spessore e una concretezza per corrispondere ai quali l’insegnamento, tutto l’insegnamento, delle scienze umane, delle scienze della natura, come pure della matematica dovrebbe preoccuparsi di costruire un ponte tra il sistema motorio, il linguaggio e il ragionamento, tra il corpo, le parole e i concetti.

 

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Partendo, ad esempio, come invitano a fare Dehaene, Lakoff e Nunez, Giuseppe Longo e tanti altri, dal senso come atto radicato in gesti antichissimi, e per questo solidissimi, quali il contare qualcosa, l’ordinare, l’orientazione della linea numerica mentale e la pluralità di pratiche a essi collegate, che non sembrano dipendere né dal sistema di scrittura, né dall’educazione matematica. A questi gesti il linguaggio e la scrittura hanno dato l’«oggettività dell’intersoggettività», la stabilità della notazione comune, fornendo le strutture portanti del ponte di cui si parlava, la cui importanza comincia a essere riconosciuta da tanti matematici, anche immersi o prossimi al formalismo, i quali, non a caso, ammettono i limiti di un approccio che, per essere perfettamente, meccanicamente rigoroso, ritiene di poter evitare ogni riferimento all’azione nello spazio e nel tempo.

 

È questo il nucleo non esoterico del concetto di competenza, che mette in crisi l’idea che la conoscenza si acquisisca mediante la pura e semplice trasmissione di strutture già definite e di significati già codificati nello spazio esterno e ci obbliga, per contro, a prestare la debita attenzione alle modalità di organizzazione del campo ricettivo interno. Ecco la rilettura, nel linguaggio e con le acquisizioni di oggi, di quel concetto di fermentazione che Florenskij, quasi un secolo fa, collocava giustamente all’estremo opposto dell’enciclopedia.

 

Il riferimento a questo quadro generale avrebbe, oltretutto, permesso di avviare finalmente una seria riflessione sulle tecnologie, sul loro rapporto con il pensiero scientifico, sulle profonde trasformazioni che esse stanno portando, oltre che al nostro modo di comunicare, anche a quello di organizzare la conoscenza e di concepire i processi di apprendimento e gli ambienti in cui essi andrebbero collocati. Tutte pagine non scritte nelle Indicazioni per i licei: un’omissione destinata a pesare non poco sul futuro della scuola italiana se è vero, come scriveva ancora Florenskij in un mirabile saggio del 1922 sui rapporti tra la tecnica e il corpo, che “le invenzioni tecniche possono essere considerate come il reagente per la conoscenza di noi stessi”.

 

 

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