La fase attuale di dibattito per la revisione e la redazione definitiva della bozza di Indicazioni nazionali deve essere guidata dalla coscienza della struttura unitaria complessiva con cui è stato presentato il riordino dei licei. La commissione infatti ha proceduto intenzionalmente in questo modo: sono stati prima fissati gli strumenti (logico-argomentativi e metodologici, linguistici e comunicativi, culturali) che lo studente deve possedere al termine del percorso scolastico, poi sono stati definiti il profilo generale e le competenze di ciascuna disciplina, infine sono stati elencati i contenuti fondamentali delle materie scolastiche. Il presupposto è che a scuola si imparano certe cose, e che il percorso scolastico, passando attraverso un curriculum intenzionale costruito sulle conoscenze, conduce ad una crescita dello studente. Nessuna di queste affermazioni è scontata.



Che a scuola si imparino certe cose non è stata un’evidenza per molto tempo, e non solo perché non risultava garantito il raggiungimento di obiettivi anche minimi, per esempio la padronanza della corretta ortografia dell’italiano, ma soprattutto perché la scuola ha funzionato da ammortizzatore sociale e da ricettacolo di molte altre attività (socializzazione, intrattenimento, alternativa alla strada, supplenza alla famiglia e alla società nel suo complesso). Che si dica esplicitamente che a scuola si va per imparare rappresenta una svolta, come molti riconoscono. Si tratta da un lato di una necessità (possiamo ancora permetterci che con 13 anni di scuola alle spalle i giovani non sappiano mettere correttamente gli apostrofi?), dall’altro di un’utopia che richiederà altri passaggi (chi convincerà gli studenti che l’istruzione è utile se la mobilità sociale in Italia non esiste ?).



Le materie che si studiano a scuola poi non sono lì per privilegio “di casta”: delimitano un campo dell’esperienza e chiariscono le domande che attraverso quella disciplina gli uomini si sono posti davanti alla realtà: esse sono giustificate in quanto contribuiscono a costruire il profilo in uscita. Non dare per scontata la domanda da cui una disciplina nasce, la categorialità specifica che introduce, il metodo che gli è proprio, i processi che attiva, come è stato tentato con i profili generali delle singole materie, potrebbe orientare le discipline verso i risultati descritti nel profilo in uscita.



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È il valore della conoscenza che deve essere chiarito, altrimenti tutte le operazioni di avvicinamento fra conoscenze e competenze risultano posticce. L’idea di un sapere “disinteressato” a mio parere ha fatto danno: non c’è niente dell’uomo che non nasca da un bisogno, da una urgenza piena di ragioni. Che cosa altrimenti è in grado di ridestare l’interesse dei nostri studenti nei confronti della realtà naturale, del passato, del presente? Ogni materia introduce uno sguardo umano su oggetti che resterebbero inerti senza questo sguardo, e quindi li modella secondo strumenti operativi o concettuali.

Avere coscienza di cosa sia la propria materia di insegnamento per un insegnante potrebbe essere scontato, ma non lo è. Sapere quali categorie interpretative e quali strumenti concettuali si applicano a un certo dominio di realtà, sapere a quale domanda risponde il sapere, vivere in prima persona questo interesse nei confronti di ciò che si insegna, tutto ciò riposiziona mezzi e fini. Più che un eccesso di conoscenze o una scarsa chiarezza sulle competenze, mi pare che un punto estremamente debole della riflessione sulla scuola sia proprio questo.

 

Quanta insistenza vi sia sul calcolo (mezzi) invece che sulle questioni di fondo a cui lo studio della matematica apre la ragione (scopi), emerge chiaramente dalla ricerca INVALSI -UMI sulla ricorrezione delle prove all’esame di Stato. Un altro caso in cui la confusione tra mezzi e scopi è lampante riguarda le famigerate griglie di lettura (mezzi) che spesso addirittura allontanano dalla lettura, che è invece l’incontro con un dato, con una novità (scopo). Ogni romanzo, analizzato in relazione alle pertinenze tipiche della narratologia, ha finito con l’essere solo un exemplum di una species, invece che un evento unico pensato da un autore per dire qualcosa che gli premeva. Ora nelle indicazioni si torna al “piacere della lettura”, piacere che non è affatto otium (la letteratura non è intrattenimento!), ma è esperienza più profonda di sé ed esperienza più ampia dell’altro da sé. È questa esperienza che deve essere possibile a scuola, così come l’esperienza di crescita contenuta in ogni seria conoscenza.

 

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Come sia possibile tenere conto del fine e della domanda sintetica da cui nasce ogni materia scolastica è compito impegnativo che non può essere demandato solo ai singoli insegnanti. Impegna almeno l’università (che però, da sempre, dà piuttosto accesso a problemi analitici), le associazioni disciplinari e professionali, chi è preposto alla formazione in servizio degli insegnanti.

 

Nella nostra scuola si ragiona ancora per elenco di apprendimenti, la ricorsività è spesso intesa come la ripetizione, prima le cose si presentano in pillole (a volte con banalizzazioni che rasentano l’errore), poi in modo più “scientifico”, ripetendo ciclo dopo ciclo gli stessi contenuti senza misurarsi con le possibilità cognitive degli studenti. Anticipare certi approcci nella scuola primaria può essere altamente nocivo ( il piccolo storico o il piccolo geografo), non fare memorizzare in modo automatico alcuni meccanismi al momento giusto (tempi dei verbi, tabelline) entro gli 11 anni può danneggiare la padronanza della lingua italiana o della matematica per tutta la vita. Capire la funzione del pronome relativo è molto più difficile che capire i pronomi personali, cogliere la funzione dell’avverbio è più complesso che capire il valore della preposizione, la subordinata concessiva è logicamente più impegnativa della temporale. Che cosa rende certi contenuti più complessi di altri? In che ordine è più funzionale presentarli? Quali sono i passi da fare? Sono domande a cui è necessario rispondere.

 

Il problema della crescita attraverso i contenuti è fondamentale per una vera riorganizzazione del sapere in funzione di competenze. Ciò non significa affatto ridurre le conoscenze a mezzi per il raggiungimento di fini “sociali”, come vogliono alcuni, i quali utilizzerebbero volentieri criteri estrinseci alle conoscenze per selezionarle. La conoscenza è già di per sé attività sommamente umana e portatrice di competenze. Ma non significa nemmeno che il passaggio da ciò che viene detto nelle Indicazioni a quanto viene fatto nelle classi perché i ragazzi crescano e possano arrivare a quanto indicato nel profilo in uscita, sia automatico. Questa famosa “crescita” deve essere messa a tema come punto di lavoro, a cominciare dagli insegnanti che hanno la responsabilità di una classe: nulla di meno scontato.

 

A me pare perciò che ogni diatriba (conoscenze-competenze, datato-moderno, cosa c’è-cosa manca) risulti poco fruttuosa se non ci si accorge di che cosa è implicato nell’impostazione delle Indicazioni per i nuovi licei: la funzione stessa della conoscenza e lo scopo della scuola. Il lavoro da fare è ancora molto e richiede ampie e generose collaborazioni.

 

 

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