Nel dibattito sulle competenze, favorito dall’Associazione Treelle l’8 aprile scorso, ho avuto modo di apprezzare la descrizione delle azioni degli altri Paesi per raggiungere il pieno successo educativo nel XXI secolo.

Dopo un primo bilancio della strategia di Lisbona, l’Unione europea guarda già ai prossimi 10 anni. In particolare, tra le priorità di Europa 2020, troviamo quella di una crescita intelligente basata, cioè, su un’economia della conoscenza e dell’innovazione.



La chiave di volta per camminare lungo questa direttrice, ripresa recentemente dal nostro Governo per la redazione delle Linee guida per la formazione, è l’integrazione tra il sistema educativo di istruzione e formazione e il mercato del lavoro. Un’integrazione che si realizza gradualmente basandosi proprio sul concetto di “competenze personali”, promosse da percorsi educativi nei quali si integrino in maniera ordinaria e sistematica teoria e pratica, studio e lavoro, riflessione e azione.



Ora nell’affrontare il rischio di marginalizzazione della nostra economia e della nostra società a livello mondiale, questa è una necessità improrogabile, che impone la rotta da tenere: attenzione privilegiata al mondo del lavoro e apprendimento per competenze personali.

L’Europa deve, infatti, affrontare un paesaggio geopolitico diverso da quello previsto nel 2000, con il protagonismo delle economie asiatiche e di altre potenze emergenti.

In questo senso, sono eloquenti i dati dello studio Il mondo 2025, presentato dalla Commissione europea lo scorso settembre.

Lo studio mostra che, a quel tempo, il 61% della popolazione mondiale sarà in Asia e nell’Unione europea solo il 6,5%, con la più alta percentuale sopra i 65 anni. Inoltre la triade Unione europea, Stati Uniti e Giappone perderà il suo primato nel commercio e nella produzione mondiale. Così pure, la scienza sarà prodotta in massima parte al di fuori dei paesi prima considerati leader, molti dei quali europei.



Dunque, l’Europa sarà più debole, a meno che non reagisca in maniera unitaria e qualitativamente superiore alle sfide che si impongono. In particolare a quella della libera circolazione della conoscenza e del talento: la cosiddetta “quinta libertà”, dopo la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Per questo bisogna puntare sulla promozione delle “competenze personali” di ognuno, senza perdere il contributo di innovazione e di possibile creatività che può essere assicurato da ogni giovane.

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La letteratura sull’argomento individua competenze di diversi gradi: le competenze-comportamenti (in definitiva avvicinabili alle prestazioni), le competenze-funzioni (capaci di far giungere ad un maggior livello di complessità) e le più apprezzate competenze generative o di transizione (orientate alla creatività e all’innovazione). Tutte però si manifestano risolvendo problemi reali, non in astratto. L’intreccio tra scuola e vita deve essere costante.

 

E la nostra scuola dove si colloca?Possiamo dire che finora si è per lo più collocata sulla competenza di primo grado e che potrebbe trovarsi in un prossimo futuro ad aver raggiunto le competenze di secondo grado, soprattutto con l’implementazione della riforma dei piani di studio da qui fino al 2015, anno in cui si diplomeranno i primi studenti dei nuovi ordinamenti dell’istruzione secondaria superiore.

Dunque, di passi in avanti ne sono stati fatti tanti. Quello più significativo resta senz’altro il recupero delle conoscenze fondamentali per riacquistare i livelli di apprendimento progressivamente perduti dal ’68 in avanti.

La nostra scuola non sembra ancora pronta, però, a misurarsi con il nucleo più profondo della competenza di terzo grado. Si tratta di una sfida metodologica e didattica che si può vincere. Per farlo occorre affrontare con successo alcune incognite, in rottura coraggiosa con il passato.

 

1. La prima incognita è l’esistenza, ormai, di un doppio repertorio di competenze utili: quelle apprese a scuola e quelle apprese dalla “strada”. Anche i più bravi non riescono a “mobilitare” le loro conoscenze scolastiche per risolvere problemi quotidiani. Il pericolo è trasmettere a scuola un sapere “morto”,senza senso per la “vita”, pur continuando a imporre ai giovani di investire 13 anni in frequenza scolastica (un anno in più dei Paesi Ocse). 

 

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2. La seconda incognita è il divario generazionale. L’approccio dei “nativi digitali” è più reticolare che lineare. Le loro riflessioni si sviluppano spesso in collisione con quelle della formazione tradizionale, ancora incapace di transitare dall’insegnamento alla centralità dello studente (in questo, l’approccio per competenze personali aiuterebbe non poco). Dello studio, i giovani afferrano sempre meno il fine e la scuola fa fatica a coinvolgerli in progetti, personali o condivisi, di lungo termine.

Viceversa, la scuola dovrebbe aprire la mente ai metodi di soluzione dei problemi. Così facendo, si dovrebbe affievolire l’importanza delle aree tradizionali di apprendimentoper lasciare spazio all’esercizio di abilità interdisciplinari che arricchiscano le capacità comunicative della persona, facilitate dall’uso di blog, podcast, wikipedia e twitter, come avviene nei nuovi curricula delle scuole elementari inglesi. A scuola, come nella vita quotidiana, vanno utilizzate le straordinarie potenzialità di Internet in tutte le sue forme, anche perché quasi non ci ricordiamo più com’era il mondo “prima di Google”.

 

3. Terza incognita: la morfologia delle competenze. La misurazione delle conoscenze e delle abilità è oggettiva. Tale oggettività di misura non può tuttavia valere per le competenze personali, quelle più pregiate, che portano all’innovazione: la competenza di Picasso non si confronta con quella di Michelangelo in una scala commensurabile.

Peraltro, la strada delle competenze personali è contagiosa: esige che l’intera comunità scolastica e sociale si faccia carico dell’eccellenza e dell’esemplarità perché, viceversa, non potrà mai esigere queste qualità dagli studenti. Da questo punto di vista la strada delle competenze personali è anche quella che aiuta a risolvere l’emergenza educativa di cui tanto e a ragione si parla.

 

4. Quarta incognita: professionalità dei docenti. Chi opererà i mutamenti che il cambio di paradigma delle competenze comporta? Qualsiasi riforma può infrangersi sullo scoglio dell’intermittenza dell’insegnamento, quando per i motivi più vari ogni anno un docente su quattro non assicura continuità alla stessa scuola. E ancora, chi opererà questo mutamento epocale, soprattutto se ad insegnare è una classe docente “anziana” (l’età media dei docenti italiani supera i 50 anni, 40 anni per i neoassunti) priva di stimoli istituzionali per crescere e per migliorarsi, acquisendo competenze personali sempre più alte e riconosciute?

 

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Affinché gli insegnanti sappiano svolgere il nuovo e complesso compito, occorre formare una nuova generazione di docenti, anche attrezzata a colmare il suo divario digitale. Una soluzione potrà essere certamente l’attivazione del Regolamento ministeriale sulla Formazione all’insegnamento. Inoltre, solo in Italia, Grecia e Danimarca l’aggiornamento dei docenti è opzionale, svincolato da qualsiasi progressione di carriera.

La leva su cui puntare, allora, è la professionalità dei docenti. Il lavoro dei docenti (valutato, ricondotto al merito, sostenuto e premiato) dovrà prevedere strategie di insegnamento diversificate, attrattive e orientate verso il successo di ognuno.

 

5. Quinta incognita:il salto dalle competenze attuali (da non abbandonare, in una logica comprensiva) a quelle del futuro, richiede anche una valorizzazione delle comunità educanti espresse dalla società civile e una diversa organizzazione della scuola non più autoreferenziale e maggiormente responsabile. Una scuola che avvii il reclutamento di rete degli insegnanti, formati e valutati in itinere e uno sviluppo della carriera docente che tenga conto del merito.

 

Insomma, se le cose stanno così, insieme alla riforma dei contenuti di insegnamento-apprendimento, servono strategie e politiche per trasformare le incognite in strumenti di innovazione e rendere la scuola capace di anticipare il domani e non solo di insegnare l’oggi, con lo sguardo al passato. “Il mondo cambia troppo velocemente per stargli dietro, quindi dobbiamo stargli avanti!”. Così una fulminante pubblicità.

 

 

 

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