La riforma dell’università italiana è forse la fiction di maggiore successo dal Regno d’Italia a tutta la Prima e Seconda repubblica. Purtroppo è una fiction da canali digitali, interessante per una minuscola audience che ne riempie le giornate, ma impensabile sui canali generalisti della televisione tradizionale. C’è chi vive questa marginalità del dibattito sull’università come un’ingiustizia, chi come un segno dei tempi che corrono, chi come l’esito di una grande convenzione ad excludendum. Io lo vivo come l’ennesima prova dell’incapacità di governare e riformare di tutta la classe dirigente di questo Paese, se è vero che le riforme che sono passate hanno avuto bisogno sempre di un’ondata di emozioni o sensi di colpa (quella elettorale, del mercato del lavoro ecc.), invece che di un piano ambizioso, ma realistico di rinnovamento. Ciò nonostante, la riforma dell’università si dovrà fare, se non altro perché ad un certo punto del cammino il dissesto delle casse delle università italiane produrrà conseguenze mediatiche rilevanti.
Nell’attesa, credo sia venuto il tempo di sviluppare progetti ambiziosi, poiché nei momenti di discontinuità forte, anche piccoli semi possono germogliare. Il quadro legislativo e politico è sempre stato al centro del dibattito sull’università dentro l’università; nessuno può negare la posizione della CRUI dell’impossibilità di una riforma senza risorse quale quella che sembra anticipata per l’inizio dell’estate. Tuttavia credo ci siano due atteggiamenti diversi pur dinanzi alle stesse incertezze e ambiguità.
Uno è quello di maniera di una certa élite culturale imborghesita che si appassiona al gusto del dettaglio e del dibattito fine a sé stesso. Sono i Didi e Gogo di Beckett, che nell’attesa divagano in continuazione con la consapevolezza che nell’assenza di senso è bene riempire il silenzio in qualsivoglia modo, piuttosto che chiedersi il senso di sé. Le ritualità democratiche dell’università italiana divengono l’ideale palcoscenico di questa vera e propria pièce teatrale. L’ironia non deve celare la simpatia di fondo per questo atteggiamento che, pur sbagliato nei mezzi, ricorda il tempo in cui la cultura aveva un ruolo portante in Italia. Quel tempo è tuttavia tramontato.
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L’altro è quello del tenente Drogo e prima di lui del capitano Ortiz che trovano nel fare bene, ogni giorno, anno dopo anno quello che devono fare, senza quasi chiederne il senso, il modo di alimentare la loro attesa e la loro speranza. Ispezionano le truppe, mantengono la disciplina e coprono sempre di attenzione la Ridotta Nuova. I tartari non sono origine di paura, di dileggio o di noncuranza, ma alimentano in quegli uomini il senso di un dovere ammantato nella speranza.
È questo l’atteggiamento che inizia a serpeggiare nelle università, finalmente. L’idea che l’attesa non sia vana, che, pur rispettosi di chi preferisce accettare la vacuità dell’attesa, sia il tempo di mettere in campo coraggio e ambizioni per inventare una nuova e diversa università non del futuro, ma del domani. L’università è ancora un potente luogo di attrazione per la società, nonostante la sistematica operazione di delegittimazione istituzionale che ha accompagnato il ruolo di molta, troppa politica e stampa della Seconda repubblica. È il luogo in cui si scambia, si definisce e si certifica la conoscenza che alimenta questo Paese. È il tassello finale della costruzione della cittadinanza, poiché segue la scuola che costruisce la cittadinanza civica e culturale per innestare la cittadinanza economica, ovvero la piena possibilità di rendersi cittadino autonomo tramite la propria capacità di creare valore anche (ma non solo) economico e produttivo.
I Drogo e gli Ortiz sono più numerosi di quanto si pensi e sono accomunati dall’idea che fare bene il proprio lavoro in tutte le sue declinazioni (ricerca, trasferimento tecnologico, didattica, amministrazione e gestione) sia più importante che discutere di come dovrà essere la governance (che pure deve essere cambiata). Anche altri fanno bene il proprio lavoro, ma in più nella fortezza Bastiani si crede ad un’apertura dell’università ai diversi interlocutori della società, oltre agli studenti, gli enti pubblici, le associazioni, le imprese, le comunità locali. Si scopre quanto importante sia rimasto il ricordo della propria vita universitaria negli alumni, ci si stupisce davanti all’ammirazione per il proprio lavoro di manager e imprenditori, ci si rafforza nel senso di appartenenza a qualcosa di più di un gruppo disciplinare, di un dipartimento, di una facoltà, orgogliosi della propria Università.
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La partecipazione e il profondo senso comunitario dell’università rappresentano il valore più autentico sul quale costruire una condivisione del percorso che parta dal basso e non dall’alto. È più facile rispondere ai propri stakeholder se li si considera centrali nelle attività di tutti i giorni, piuttosto che aspettare che abbiano una posizione decisionale nel Consiglio di amministrazione. Questo non significa voler criticare la revisione dell’organo di governo che è necessaria, ma ricordare che rappresenterà solo un minimo ingrediente di un cambiamento che in fondo non è in soluzione di continuità con il passato. Sebbene molto distante ideologicamente dal ’68, credo che in quella stagione – pur in modi talvolta sbagliati – si aprì l’università al Paese auspicando una messa in discussione della stratificazione sociale del Paese stesso. Poi, molti che allora erano in prima fila hanno preso strade diverse e l’apertura si è progressivamente richiusa non senza responsabilità.
Certo tutti possono iscriversi all’università, ma quanti davvero possono trovare nell’università quel luogo di cambiamento e di stimolo di cui un adulto ha bisogno? Riaprire l’università è il compito che oggi ci attende; non con le barricate o con lo scontro sociale, ma con la serena consapevolezza che lavorare sulla e con la conoscenza ha valore solo se è fatto per gli altri (oltre che per la propria, giusta, gratificazione) e con la disponibilità a sederci attorno a tanti tavoli senza remissività né all’opposto arroganza, ma tanta voglia di imparare.