La prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei ha ricevuto sui media apprezzamenti estesi e non scontati. Molti di questi apprezzamenti nascono dalla percezione di una forte inversione di tendenza rispetto alla progressiva affermazione, negli anni ’70, di una pedagogia che si proponeva di non imporre regole e non dare nozioni. Una pedagogia secondo cui il bambino non deve imparare a memoria le tabelline e le date della storia, non deve studiare la grammatica e l’analisi logica.



Insomma in poche parole le Indicazioni nazionali sembrano rispondere in modo convincente a chi chiede una scuola più seria, più rigorosa, con insegnanti preparati e più autorevoli.

Personalmente non sono così ottimista. La prima stesura delle Indicazioni nazionali, se risponde in modo convincente all’esigenza di andare oltre il metodologismo e un certo linguaggio astruso che ha caratterizzato molti documenti ministeriali, sembra fare una scelta manichea. Privilegia le conoscenze sulle competenze. Indica chiaramente le conoscenze su cui basare le competenze, ma non individua un indirizzo chiaro (paradigmatico anche se non prescrittivo) intorno alle competenze da raggiungere.



Su questi aspetti condivido le osservazioni critiche formulate da Giorgio Rembado, da Luisa Ribolzi e da Tiziana Pedrizzi. Il limite più evidente di queste Indicazioni nazionali è immaginare che si possa tornare ai tempi in cui Berta filava e così superare la dilagante ignoranza dei “nativi digitali”. Magari. Ma non penso che sia possibile tornare alla vecchia e cara scuola dove al centro vi erano le discipline rigorosamente insegnate ad una élite di studenti con famiglie acculturate alle spalle. La sfida sottesa alla ratio del Regolamento di riordino dei licei è un’altra: introdurre un vero e proprio ripensamento del rapporto tra i processi di apprendimento e di insegnamento. Passare da una didattica basata sulle discipline e sull’insegnamento a una didattica basata sulle competenze realisticamente acquisibili dalla maggioranza degli studenti e sull’apprendimento. È una rivoluzione copernicana che molti sistemi educativi in Europa hanno affrontato con coraggio e con successo. Si chiama riforma dell’insegnamento e chiama in causa una profonda trasformazione culturale del ruolo dell’insegnante. Non ha niente a che vedere con la becera trasformazione del docente in “facilitatore” e in “assistente sociale”. Non rinuncia al rigore del sapere e alla trasmissione di generazione in generazione del patrimonio della cultura di cui la scuola – e non Internet – è detentrice.



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La didattica per competenze è molto diversa da una didattica basata esclusivamente sulle discipline insegnate in forma cattedratica e nozionistica ignorando i risultati di apprendimento. Non che le discipline vengano meno. È evidente che le discipline sono la base del “Lego della conoscenza”. Ma i singoli mattoni del “Lego” (le discipline) concorrono a costruire il “castello dell’apprendimento” (le competenze effettivamente possedute dagli studenti). Il limite della didattica disciplinarista è proprio l’incapacità di integrazione delle discipline tra di loro e l’individualismo pedagogico. La prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei sembra puntare in modo squilibrato esclusivamente sulla trasmissione delle conoscenze, esemplificate da materie, testi e programmi e trascurare la più ampia prospettiva educativa che si fa carico della persona e del suo apprendimento, mettendo lo studente in rapporto con le sue potenzialità di evoluzione, richiamando la pluralità delle intelligenze, l’intreccio inevitabile di conoscenze, abilità e qualità personali, i saperi messi al lavoro in campi spesso lontani dall’ambiente scolastico.

 

D’altro canto è acclarato nelle migliori esperienze internazionali che si apprende meglio integrando le diverse discipline, trattando problemi, collegando i saperi attraverso gli organizzatori concettuali. Tempo, energia e misura ad esempio si possono apprendere solo integrando sul piano metodologico le diverse discipline scientifiche. Probabilmente però dietro la soluzione adottata dalla prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei c’è una fuorviante identificazione tra il concetto di competenza e quello di abilità. Ho cercato di argomentare questa fondamentale differenza in alcuni testi a cui mi permetto di rimandare (“Scuola ed Extrascuola”, Ed. La Scuola, 2002 e “Umanesimo tecnologico e istruzione tecnica”, Ed. Armando, 2007).

 

La lingua italiana per alcuni aspetti è ambigua e ci soccorre l’inglese: competenza è la sintesi di knowledge (conoscenze), skills (abilità), habits (qualità umane, abiti mentali). Nelle migliori ricerche internazionali la competenza non è una specie, ma un genere di cui la conoscenza è una fondamentale componente, ma che privilegia l’integrazione delle discipline, sviluppandone il potenziale di apprendimento. In Italia hanno sviluppato interessanti ricerche in questo campo Guasti, Tagliagambe e Margiotta. E sul piano operativo la Regione Lombardia con applicazioni davvero innovative nel campo dei percorsi triennali di istruzione e formazione professionale. Più di recente l’Ufficio scolastico regionale della Puglia ha avviato un interessante programma di formazione degli insegnanti basato sul rapporto che intercorre tra le discipline e le competenze.

 

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Noto due rischi che dovrebbero essere evitati. Innanzitutto la rinuncia all’innovazione didattica in nome di una conservazione del primato esclusivo delle discipline. E per questo auspico che nella stesura finale delle Indicazioni nazionali si tenga in maggiore considerazione il raccordo tra le diverse aree disciplinari e le competenze da raggiungere descritte in modo non generico. Ma vi è anche un altro rischio. Quello di cambiare tutto perché tutto resti come prima limitandosi a chiamare le discipline “competenze” e riproducendo quindi i limiti del cognitivismo.

 

Fa parte di questo rischio il maldestro tentativo di trasformare l’EQF (European Qualification Framework) in una sorta di nuovo curricolo. Con lo scopo di promuovere in Europa l’apprendimento permanente, l’EQF, approvato dalla Commissione Europea nell’aprile 2008, è una tassonomia che parte dal livello 1 (la licenza elementare) e arriva al livello 8 (il dottora­to). È un modo per rendere trasparenti e trasferibili diplomi, qualifiche e lauree, sapendo quali competenze corrispondono ai diversi titoli di studio. Ma l’EQF non è un nuovo curricolo né manda in soffitta le discipline, ma verifica le competenze associandole non solo al profitto scolastico, ma anche alle pratiche professionali. In campo scolastico il concetto di competenza ha un valore tecnico (di assimilazione di procedure) ma ne ha anche uno eminentemente formativo, legato alle diverse formae mentis (H. Gardner), agli atteggiamenti cognitivi, alla valenza critica e riflessiva dei saperi.

 

La didattica per competenze e l’integrazione delle discipline comportano la fine dell’enciclopedismo, cioè della pretesa di riempire di nozioni la testa degli studenti. Gli studi di Edgar Morin, soprattutto il suo libro Una testa ben fatta, hanno ampiamente dimostrato l’esigenza che i vari tipi di scuola non si limitino ad accumulare negli studenti un insieme di conoscenze disciplinari separate, poco approfon­dite e per nulla interrelate, ma a fornire loro i sape­ri critici per continuare ad apprendere. Nessuno ovviamente vuole che, per evitare il rischio della testa piena prepariamo un menu didattico talmente lontano dal rigore del sapere disciplinare da assicurare ai nostri ragazzi una testa vuota. Le Indicazioni nazionali fanno dunque benissimo a ribadire l’importanza del sapere disciplinare, ma questo sapere disciplinare deve potersi arricchire per diventare competenza misurabile.

 

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La competenza è conoscenza applicabile, trasferibile, operativa. Si ha competenza nell’applicare e nel rendere produttivi i saperi: sviluppare competenze critiche è anche aiutare i ragazzi a scoprire quello che emerge dall’intersezione dei vari saperi, tra scienza e storia, tra scienza e arte, tra matematica e filosofia. Il concetto di competenza non è un concetto “mercantile”, ma è il superamento della frantumazione e della separazione /gerarchizzazione dei saperi. Ci soccorre ancora una volta la migliore ricerca internazionale sulle competenze che ha trovato una efficace applicazione negli indicatori OCSE-PISA (tanto indigesti non solo per i nostri studenti ma per tanti nostri insegnanti). È auspicabile che la versione definitiva delle Indicazioni nazionali tenga adeguatamente conto di questi indicatori nel descrivere le competenze che uno studente liceale deve possedere ai vari livelli. Ricordo che il cardine della rilevazione OCSE-PISA, assunto per indicare le competenze in lettura, matematica e scienze, è il concetto di literacy, termine con il quale l’OCSE indica l’insieme delle conoscenze e delle abilità possedute da un individuo e la sua capacità di utilizzarle.

 

La literacy scientifica è definita dall’OCSE come: “L’insieme delle conoscenze scientifiche di un individuo e l’uso di tali conoscenze per identificare domande scientifiche, per acquisire nuove conoscenze, per spiegare fenomeni scientifici e per trarre conclusioni basate sui fatti riguardo a temi di carattere scientifico, la comprensione dei tratti distintivi della scienza intesa come forma di sapere e d’indagine propria degli essere umani, la consapevolezza di come scienza e tecnologia plasmino il nostro ambiente materiale, intellettuale e culturale e la volontà di confrontarsi con temi legati alle scienze, nonché con le idee della scienza, da cittadino che riflette”. Quella matematica viene presentata come “la capacità di un individuo di identificare e di comprendere il ruolo che la matematica gioca nel mondo reale, di operare valutazioni fondate e di utilizzare la matematica e confrontarsi con essa in modi che rispondono alle esigenze della vita di quell’individuo in quanto cittadino che riflette, che s’impegna e che esercita un ruolo costruttivo”. Infine la literacy in lettura è “la capacità di un individuo di comprendere, di utilizzare e di riflettere su testi scritti al fine di raggiungere i propri obiettivi, di sviluppare le proprie conoscenze e le proprie potenzialità e di svolgere un ruolo attivo nella società”.

 

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La matematica, così come l’italiano, è una disciplina i cui contenuti sono funzionali anche all’apprendimento di altre discipline. Le difficoltà di lettura, scrittura e analisi quantitativa influiscono di solito negativamente sulle capacità di studio, approfondimento e aggiornamento delle persone e costituiscono il maggiore rischio di insuccesso, scolastico e professionale.

Rilevo l’urgenza di definire gli standard formativi di riferimento per la valutazione e la certificazione delle competenze. Rientra in questo percorso la necessità di realizzare attorno all’espressione “competenza” uno sforzo di sintesi dei diversi approcci culturali, che abbandoni una volta per tutte il vecchio preconcetto idealista che vuole la scuola legata all’otium e ben lontana dal negotium. Se Leibniz sosteneva che “la cultura libera dal lavoro”, Spinoza replicava che “ogni uomo dotto che non sappia anche un mestiere diventa un furfante”.

 

 

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