Rispondo volentieri alle domande poste nell’ultimo intervento da Marco Campione, il quale però mi attribuisce meriti che con tutta evidenza non ho e non potrei avere. Le politiche scolastiche di Regione Lombardia sono merito e responsabilità della Regione stessa e non di chi, come il sottoscritto, contribuisce alla loro attuazione con un mero supporto tecnico esterno.



Resto quindi sul un piano tecnico nel rispondere alle ultime considerazioni di Campione, che considero significative per molti temi: il dibattito sulla parità scolastica, l’autonomia delle scuole, il ruolo della “istruzione e formazione professionale” nel sistema educativo.

Iniziamo a riportare la proposta del presidente Formigoni dell’albo regionale dei docenti nel suo contesto esatto, che non è quello della discriminazione dei docenti meridionali – la residenza non è infatti condizione per l’iscrizione all’albo – ma quello della piena autonomia scolastica. Come ha ben evidenziato l’articolo di Cominelli, l’albo, a differenza delle graduatorie, porta con sé la conseguenza che siano le scuole a scegliere i docenti. L’accento quindi è da porre sulla parola “albo” e non sulla parola “regionale”.



Sono anni che la Lombardia, in buona compagnia di diverse realtà di ricerca e di rappresentanza professionale, chiede di giungere ad una reale autonomia della scuola statale, perché essa possa configurarsi come comunità professionale con caratteristiche di impresa culturale.

In questa prospettiva la selezione diretta, la titolarità giuridica ed economica del rapporto di lavoro del personale sono aspetti imprescindibili dell’autonomia, così come lo è la piena gestione economica di tutto il bilancio.

Il finanziamento di tale scuola autonoma sarebbe commisurato innanzitutto in rapporto al numero di studenti, al tipo di scuola e alla sua collocazione. Il reclutamento avverrebbe tramite concorso, come d’altronde già oggi avviene per le autonomie locali.



Per raggiungere questi obiettivi una legge regionale è palesemente insufficiente. Vi è in effetti nel Capo III della legge regionale 19 del 6 agosto 2007 la previsione di conferire piena autonomia alla scuola, ma essa si attiverebbe esclusivamente nel caso di trasferimento alla Regione delle istituzioni scolastiche autonome “ai sensi di accordi nazionali per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica al Titolo V della Costituzione”.

A tutt’oggi è quindi necessaria una legge nazionale che modifichi il regolamento dell’autonomia scolastica, lo stato giuridico degli insegnanti, le modalità di reclutamento.

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La piena autonomia scolastica sposta la responsabilità direttamente sulla scuola, liberandola dal governo esterno del suo processo. Insomma, la farebbe uscire dal suo attuale “stato di minorità”.

L’autonomia implica per sua natura responsabilità e ciò comporta il “rendere conto”, l’accountability. Per questo motivo anche la valutazione esterna è un elemento necessario dell’autonomia; ne è il suo contraltare.

Regione Lombardia ha attivato da tempo studi e sperimentazioni concrete per giungere ad un sistema di valutazione esterna complesso e articolato. Molti sono gli indicatori in gioco, dai risultati di apprendimento a quelli di successo occupazionale e formativo, alla soddisfazione percepita. Altrettanto complesse sono le variabili di contesto di cui tenere conto.

Lo scorso anno sono stati pubblicati i risultati della valutazione degli apprendimenti nei percorsi di Istruzione e formazione professionale regionali, dove è stato utilizzato il metodo di Rasch, con un approccio innovativo e in sintonia con le prove PISA sia per la modalità di somministrazione di prove oggettive con correzione controllata, sia per il focus sulle competenze chiave. È inoltre attivo un modello di valutazione e rating dei risultati degli enti di formazione accreditati. Sono tutte esperienze che stanno contribuendo alla definizione del modello di valutazione complessivo previsto dalla normativa regionale.

 

In una logica di piena autonomia della scuola statale e di risorse che seguono lo studente attraverso il finanziamento diretto, la differenza tra scuola statale e scuola non statale, dal punto di vista di studenti e famiglie si sfumerebbe, come già accade oggi per gli ospedali in ambito sanitario e per le istituzioni formative accreditate nella formazione professionale, dove la scelta avviene per motivi di qualità, di vicinanza, di tipologia di offerta e non in relazione alla proprietà dell’ente o al costo da sostenere.

Campione afferma che condivide la legge 62 del 2000. Dovrebbe allora portare questa posizione fino alle sue ultime conseguenze: la legge 62 del 2000 ha riconosciuto le scuole paritarie come “servizio pubblico”. A tutti gli effetti – in primis naturalmente i doveri – le scuole paritarie sono scuole pubbliche tanto quanto le scuole statali e quindi i loro studenti dovrebbero aver riconosciuto analogo diritto di frequenza gratuita.

Per questo motivo è sbagliato accostare i criteri di due strumenti con finalità differenti come la dote scuola per il sostegno al reddito, per gli studenti di famiglie con ISEE inferiore ai 15.458 euro, e la dote scuola “buono scuola” riservata agli studenti che pagano una retta di frequenza. Mentre il primo strumento ha lo scopo di sostenere le spese connesse all’attività scolastica per il trasporto, i libri di testo, la mensa per studenti di famiglie bisognose che frequentano gratuitamente la scuola pubblica statale, il secondo strumento è deputato a ridurre, almeno parzialmente, la disparità per gli studenti che devono pagare una retta per frequentare una scuola pubblica paritaria.

 

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Per inciso: ho portato i dati sugli studenti stranieri e disabili iscritti alle classi prime del secondo ciclo tra scuola statale ed istituzioni formative accreditate come esempio per evidenziare come non ci sia un approccio di esclusione da parte degli operatori privati; al contrario, sostenuti da corrette politiche – come avviene in questo caso per le politiche regionali – possono accogliere studenti in situazione di maggiore difficoltà anche in numero maggiore della scuola statale e trattarli con elevata professionalità, come dimostra l’esperienza dei numerosi enti di formazione lombardi.

 

Per quanto riguarda il rapporto tra istruzione e istruzione e formazione professionale: è dell’altro ieri 29 aprile l’approvazione in Conferenza Stato Regioni dell’accordo che finalmente porta a regime i percorsi di istruzione e formazione professionale (IFP) di cui al Capo III del D.lgs. 226 del 2005.

Dopo molte difficoltà il sistema di IFP sembra quindi uscire finalmente da una sperimentazione che è durata sette anni – e che in Regione Lombardia coinvolge oggi oltre l’11% del totale degli studenti di secondo ciclo – e diventare “scuola a tutti gli effetti”, nel senso della pari dignità e della capacità di assolvimento dell’obbligo di istruzione. In tal senso anche la IFP deve farsi carico seriamente del raggiungimento delle competenze chiave e di cittadinanza, mantenendo nel contempo le sue caratteristiche peculiari di carattere epistemologico, organizzativo, di personalizzazione.

Certo, molto è ancora da fare per affermare un secondo ciclo professionalizzante: ad oggi i percorsi di IFP sono attivi solo in alcune regioni, ed è aperta la questione del loro finanziamento tra regioni e Stato.

In tale nuovo quadro complessivo, con l’istruzione professionale che diventa di cinque anni perdendo il rilascio di qualifica al terzo anno e con la IFP che viene portata a regime, la Regione Lombardia si è mossa con l’accordo tra il presidente Formigoni e il ministro Gelmini del 16 marzo 2009 per unificare il sistema professionalizzante, tra istruzione professionale e IFP. Attenzione, non unificare i percorsi, ma il sistema, attraverso un’offerta di entrambi i percorsi da parte degli istituti professionali e la possibilità per gli studenti di passare dall’uno all’altro, anche per il raggiungimento della maturità quinquennale da parte dei qualificati IFP.

 

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Forse Campione non se ne è accorto, ma in Lombardia per l’anno scolastico 2010-2011 è stata effettuata una programmazione di tutta l’offerta delle scuole statali, comprendente sia i percorsi di istruzione sia quelli di Istruzione e formazione professionale.

È stato uno sforzo significativo – complicato sicuramente dai tempi di approvazione in seconda lettura del regolamenti di riordino del secondo ciclo – contraddistinto da una costante e proficua collaborazione tra Regione, province, ufficio scolastico regionale, che ha portato la Lombardia, con decreto del 12 febbraio 2010, ad effettuare un riordino complessivo dell’offerta territoriale che consentisse di introdurre i nuovi indirizzi liceali, tecnici e professionali, senza applicare la tabella di corrispondenza automatica ministeriale, che avrebbe creato forti distorsioni territoriali.

 

Per quanto riguarda la costituzione di un livello terziario professionalizzante, non è la Lombardia ad aver rallentato, ma è tutto il sistema nazionale che si sta riorganizzando per un rilancio con gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) e i nuovi percorsi IFTS, in attuazione del Dpcm del 25 gennaio 2008. D’altronde la sperimentazione a livello nazionale dei percorsi IFTS nata nel 1999 è stata insufficiente dal punto di vista della quantità e della continuità dell’offerta per poter realizzare un vero e proprio sistema terziario strutturato e stabile.

Nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni, in Danimarca, Finlandia, Francia e Svezia sono circa il 40% i laureati, di cui quasi la metà in corsi professionalizzanti. In Italia abbiamo solo corsi universitari a base teorica e nella stessa fascia d’età solo il 19% di laureati. Una formazione terziaria professionalizzante non sarebbe concorrente all’università, ma al contrario porterebbe all’aumento dei laureati complessivi nel nostro Paese. Certo, la costituzione stabile di un livello terziario di studi necessita di importanti risorse pubbliche, senza le quali non potranno consolidarsi nemmeno gli ITS e i nuovi IFTS.

 

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Infine, per quanto riguarda i costi e l’efficienza del sistema di istruzione. È vero, come afferma Campione che la Lombardia ha tendenzialmente un rapporto docenti/studenti inferiore rispetto ad altre realtà. Proprio per questo la riduzione di posti di diritto nell’anno scolastico 2009-2010 l’ha interessata meno di altre regioni, a dimostrazione che non è stata operata una riduzione lineare; infatti l’aumento del numero minimo di studenti per classe ha interessato maggiormente le regioni con un rapporto studenti/classe molto basso; inoltre il mantenimento del tempo pieno nella scuola primaria ha favorito la Lombardia dove quasi la metà delle classi è a tempo pieno.

A fronte di una media nazionale di riduzione del 6,21%, la Lombardia ha avuto – anche grazie all’aumento di studenti – una riduzione del 4,65%. Solo l’Emilia Romagna ha avuto una riduzione inferiore, pari al 3,71%, mentre altre regioni hanno visto ridurre i posti anche fino al 9%.

Resta però vero che è sempre meno sostenibile un sistema dove la programmazione è competenza delle regioni, ma l’organico è assegnato e pagato dallo Stato. In tal modo è naturale che le regioni non siano interessate ad essere efficienti e a ridurre le situazioni di spreco.

 

È emersa chiaramente tale contrapposizione tra Stato e regioni nella mancata intesa sui criteri e parametri per il dimensionamento della rete scolastica e per la riorganizzazione dei punti di erogazione del servizio, prevista dal DPR 81 del 20 marzo 2009.

Una maggior responsabilizzazione regionale si potrà raggiungere con un approccio budgetario, maggiormente coerente con il Titolo V della Costituzione: lo Stato dovrebbe assegnare il contingente di organico alle regioni non come avviene oggi sulla base della situazione di fatto, bensì sulla base di criteri oggettivi, quali il numero di studenti, con alcuni correttivi che tengano conto ad esempio della conformazione territoriale e demografica. Successivamente la programmazione regionale dovrà svilupparsi nel limite del contingente organico assegnato.

Oppure, una soluzione alternativa sarebbe l’inserimento dell’istruzione nel suo complesso nel processo di attuazione del federalismo fiscale, con un costo standard che comprenda il costo del personale. Ma questo è un tema che dovrà trovare ben altri spazi di discussione.