«Il ddl Gelmini mira a disciplinare ogni aspetto della vita degli atenei. Altro che autonomia: il ddl sul punto probabilmente è incostituzionale, ed è contrario a ogni logica di sussidiarietà e all’evoluzione dei sistemi universitari, anche su scala europea». Marco Meloni, responsabile del Pd per università e ricerca, parla con ilsussidiario.net della riforma universitaria.
Qual è la principale obiezione che il Pd muove alla riforma, come concezione di fondo e come impianto dell’articolato?
Il contenuto smentisce del tutto i propositi. Una disegno iper-normativista e iper-burocraticista, che non affronta i nodi strutturali del sistema ed è finalizzato solo a stabilizzare i tagli di oltre 1 miliardo in tre anni. Qualcuno pensa seriamente che sia possibile colmare il divario coi paesi europei (siamo indietro per numero di laureati e ricercatori, apertura del sistema, oltre a molti altri indicatori) diminuendo ancora gli investimenti e aumentando il precariato? Già ora investiamo in università meno dello 0,8% del Pil, contro una media europea dell’1,3%. Mentre, ad esempio, la Francia investe 19 miliardi.
Eppure si parla di autonomia, di valutazione e di merito.
Sono concetti che condividiamo, anche perché siamo stati i primi a sostenerli. Ma questo ddl fa esattamente il contrario. Vi si vede una logica iper-centralista, nessuna risorsa per gli studenti meritevoli, nessuna attenzione alla coesione del Paese. Così si affossa il sistema universitario, e si decide che il modello di sviluppo dell’Italia non è fondato sulla conoscenza e sull’innovazione. Un errore senza ritorno, che noi vogliamo impedire. Per questo abbiamo chiesto al governo un confronto aperto sul merito di questa riforma, che riguarda l’interesse generale del Paese. Finora, nessuna risposta.
Una delle principali critiche è che è del tutto sacrificata l’autonomia. Cosa non va nel ddl e come proporreste di cambiare questo punto-chiave?
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Il ddl Gelmini mira a disciplinare ogni aspetto della vita degli atenei. Una selva inestricabile di norme e numeri, persino per consentire l’attivazione di un dipartimento. Altro che autonomia: il ddl sul punto probabilmente è incostituzionale, ed è contrario a ogni logica di sussidiarietà e all’evoluzione dei sistemi universitari, anche su scala europea. L’impostazione è da rovesciare: responsabilità, valutazione severa, autonomia. Il governo faccia partire immediatamente l’agenzia per la valutazione, inspiegabilmente bloccata da mesi. Occorre stabilire con chiarezza i metodi di ripartizione delle risorse, attualmente avvolti nella nebbia. Servono regole eque per la competizione tra atenei, per consentire agli studenti di scegliere dove studiare a prescindere dalle condizioni socio-economiche, per assicurare la coesione territoriale del paese. L’autonomia viene di conseguenza: si lasci agli atenei la massima libertà organizzativa possibile, indicando in legge pochi criteri guida.
Cosa si può fare realisticamente dal vostro punto di vista per cambiare l’università nel paese, compatibilmente con la scarsità di risorse pubbliche?
Il governo i 3 miliardi di euro per Alitalia li ha trovati. La spesa corrente per beni e servizi della Pa è aumentata di 12 miliardi in 2 anni. Mentre altrove si sperpera – si pensi all’enorme scandalo delle opere realizzate con procedure emergenziali – le università sono allo stremo. Siamo a maggio, e non si conoscono né l’ammontare delle risorse ordinarie, né i criteri della loro ripartizione. L’abbiamo denunciato nei giorni scorsi, e, come ha detto Anna Finocchiaro, se non avremo risposte non parteciperemo più ai lavori parlamentari sulla riforma.
Cosa intende fare il Partito democratico?
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Il Pd ha posto università e ricerca in cima alle sue priorità programmatiche. Oggi iniziamo da Napoli, con Bersani, il nostro viaggio nelle università italiane. L’università ha bisogno di un intervento più coraggioso, che parta dagli studenti e dai ricercatori. Dalle esigenze del Paese e dei nostri giovani. E, in cambio, di risorse adeguate. Per “tagliare i tagli”, e raggiungere in dieci anni la media attuale dei paesi europei sarebbero sufficienti pochi miliardi di euro. In sintesi: riforme in cambio di risorse, proprio come diceva la Gelmini nei mesi scorsi. Ora c’è solo una riforma finta, mentre i tagli sono drammaticamente veri.
Lei ha scritto che la riforma della Gelmini pecca di forte e grave centralismo. Dove lo riscontra?
In tutta l’impostazione della proposta: si vuole mantenere la forma dell’impianto autonomistico, ma sottoponendo ogni decisione degli atenei a controlli e indirizzi del centro. Penso alle norme sul governo degli atenei, o a quelle finanziarie. Fondate su un concetto semplice: prima ti tolgo le risorse, poi se non sono sufficienti – cosa che a quel punto è prevedibile – ti commissario. Concordo con chi ha detto che siamo di fronte a un doppio commissariamento: gli atenei sotto il comando del ministero della Ricerca e questo sotto l’Economia. Nuovi appesantimenti burocratici, con la geniale idea di affidare borse e prestiti a una Spa del ministero dell’Economia, immagino ferratissima in materia. Insomma, l’idea è che gli atenei siano del tutto incapaci di autogestirsi, e dunque macchina indietro, si torna al centralismo. Come se i ministeri fossero invece la culla dell’efficienza. Ma questo non era il governo delle autonomie e del federalismo?
La riforma si propone di scardinare le baronie e di aprire il sistema. Le premesse per farlo ci sono?
Pura propaganda. Non so quanti siano i baroni, ma, se ce ne sono, sono certamente a favore del ddl Gelmini. Lei chi sente criticare la riforma? I supposti baroni o i ricercatori e i precari?
Voi cosa proponete invece su questo aspetto?
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Per noi è fondamentale aprire ai giovani, con percorsi di carriera rapidi e fondati su regole chiare. Le nostre proposte principali: un contratto unico di ricerca che dia diritti economici, assistenziali e previdenziali certi per le attuali posizioni di assegnista, borsista e post-doc; percorsi di carriera per i ricercatori con esito certo in caso di valutazione positiva; molti spazi nei prossimi 8 anni, col finanziamento in legge di posizioni in ruolo, per consentire ai ricercatori (strutturati e precari) di avere reali opportunità, con una giusta selezione, di entrare nella docenza; ringiovanimento della classe docente, riportandone la composizione anagrafica in linea con la media internazionale, prevedendo il pensionamento a 65 anni. Dopo, solo i docenti che gli atenei valuteranno positivamente potranno continuare a svolgere compiti didattici e di ricerca.
Altro problema è quello del reclutamento dei docenti. Cosa non va e che cosa proponete?
Non credo sia possibile creare attraverso la legge meccanismi di reclutamento perfetti. È invece possibile rendere più trasparenti e semplici le procedure – come facciamo coi nostri emendamenti – e far funzionare meccanismi di valutazione rigidissimi che disincentivino scelte poco responsabili. Deve essere chiaro chi assume la responsabilità finale della chiamata dei docenti, e paga le conseguenze di scelte sbagliate. E in ogni caso, l’ho appena detto, se puntiamo ad avere più laureati dobbiamo avere molti più ricercatori e docenti: nel rapporto studenti/docenti siamo già molto indietro. Nell’università italiana è indispensabile immettere un forte shock generazionale.
Come pensate di risolvere il problema degli attuali ricercatori?
Sosteniamo le loro ragioni, perché il disegno del governo li confina in un ruolo a esaurimento che ne mortifica qualificazione e prospettive. Abbiamo proposto già in Senato una prima norma per attivare, a cadenza regolare, per i prossimi 8 anni, concorsi che consentano a tutti coloro i quali supereranno le procedure selettive di entrare nei ruoli di docenza. Ma dobbiamo pensare anche a chi ricercatore a tempo indeterminato non lo è ancora, e dunque aprire anche a loro spazi di carriera. Stiamo perfezionando una nostra proposta sul ruolo unico di docenza, che presenteremo nelle prossime settimane.