Lo scambio di battute su ilsussidiario.net tra De Simone e Cominelli sul costo della scuola di Stato (26 marzo 2010), orienta da una parte a considerare i dati della Fondazione Agnelli come un patrimonio utilizzabile per nuove ipotesi e dall’altra a rimanere all’interno di un quadro statalista quieto e più politicamente corretto.



La difficoltà di conciliazione dipende dal setting, dallo scenario di scolarizzazione. In altre parole dal punto di vista espresso: innovativo o conservatore, sussidiarista o centralista.

De Simone ritiene possibile che il costo dell’istruzione statale non sia poicosì lontano dal concetto di efficienza che tutti noi avremmo in mente. Interviene per compensare il peso stimabile attraverso i dati del Rapporto (7.400 euro a studente tra spesa pubblica consolidata, contributi delle famiglie e oneri figurativi degli affitti che il demanio avrebbe potuto incassare) mettendo sul piatto della bilancia “alcune scelte di fondo”, necessariamente gravose,che lo Stato avrebbe compiuto: tempo pieno, accoglienza della disabilità, capillarità del servizio”. Una scelta di campo che va comunque considerata e discussa nelle sue articolazioni. In primis, viene implicitamente affermato che le paritarie non accolgono i disabili, opponendo difficoltà al loro inserimento.



Ammesso che questo sia vero in qualche caso (ma non esistono statistiche che analizzino la rilevanza e il peso del fenomeno) bisognerebbe piuttosto partire dallo squilibrio a carico non tanto delle scuole ma delle famiglie che decidono di iscrivere i loro figli alle pubbliche paritarie. Queste famiglie pagano notoriamente due volte le tasse per la scuola e già scontano i costi alti di una istruzione che è libera solo in teoria. È indubbio che il costo per l’istruzione di un ragazzo diversamente abile ricade ulteriormente sulla collettività dei già gravati genitori e, soprattutto, comporta l’esclusione di altri ancora che, a costi maggiorati, non possono più permettersi una scelta voluta ma, di fatto, impossibile. Se le regole sono truccate a favore dei genitori che iscrivono i figli alle pubbliche statali ci si potrebbe domandare se non sia utile modificarle a favore di una scelta (riconosciuta dalla Costituzione) che, oggi, diventa praticabile solo per i ricchi. È qui che dovrebbe intervenire la capacità sussidiaria dello Stato sollevando e non affossando la libertà dei genitori, se non altro perchè si esercita nell’ambito di un’offerta pubblica (Legge 62/2000).



Le misure che mantengono la scuola statale in una nicchia protetta (garantendo solo in parte gli insegnanti ma non sempre le famiglie e il sistema produttivo del Paese) corrispondono ancora al modello burocratico-risorgimentale, che ormai fa acqua da tutte le parti.

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Questo modello fallisce quando in classe possono avvenire episodi di violenza tra l’indifferenza amministrativa dei docenti, quando si allunga la scia degli abbandoni o dalla truancy (l’assenza di quei ragazzi che continuano a rimanere iscritti a scuola senza frequentare), quando la mobilità tocca 1 docente su 4 e colpisce soprattutto le scuole più deboli e meno capaci di esprimere una radicata comunità educante, quando le strutture non sempre sono adeguate e soprattutto quando i risultati degli apprendimenti ci spingono sempre più in basso nei ranking internazionali.

 

In tutto questo lo Stato non avrebbe neanche l’alibi dello spreco, dal momento che secondo il Rapporto della Fondazione Agnelli la varietà dei costi tra le regioni trova sostanziale spiegazione nel sostegno a necessità non fittizie (handicap, conformazione del territorio, ecc). La carenza della scuola di Stato è dunque strutturale e, a condizioni invariate, presumibilmente anche progressiva e irreversibile.

 

Ma andiamo oltre. Tra i più abusati idola tribus dei sostenitori del centralismo di Stato, ha un posto di riguardo quello della “copertura del territorio”. Secondo questa tesi, la necessaria funzione sussidiaria dell’Amministrazione statale dovrebbe essere sufficiente a giustificare gli alti costi e persino la mancanza di efficienza.

 

Il fatto che la capillarità del servizio offerto nelle zone più disagiate porta a ridurre le classi e ad aumentare i costi nelle scuole statali decentrate è indubbiamente vero. Bisogna, tuttavia, considerare che lo stesso fenomeno delle classi ridotte si verifica anche nelle paritarie, causa gli alti oneri di una scelta alternativa scarsamente sussidiata dallo Stato (la differenza con altri Paesi europei è stridente). A parità di spesa per le famiglie, le paritarie sarebbero maggiormente accessibili, godrebbero di economie di scala e i costi pro capite diminuirebbero di molto anche per loro. Pertanto, in un regime di quasi mercato (già lodato in altri Paesi dal Rapporto, vedi nota) le mancate economie di scala delle scuole statali periferiche verrebbero compensate da quelle generalizzate nelle paritarie. Dunque, in un quadro concettuale di scolarizzazione più ampio, la forbice che si vorrebbe chiudere non si riduce.

 

Aprire al territorio dove si può, sotto il controllo dello Stato, assicurerebbe, invece e dappertutto, una varietà di proposte pedagogiche e didattiche, innovazione e vicinanza al tessuto sociale. In altre parole condizioni adeguate per migliorare le performances che oggi sono in caduta libera. Un’indicazione in tal senso ci viene dalla lectio magistralis tenuta il 21 maggio scorso all’Università Tor Vergata da Barry Franklin, secondo il quale il successo delle riforme educative dipende dal coinvolgimento della società civile. Un elevato grado di “Civic Capacity” diventa un fattore decisivo per il miglioramento dell’offerta scolastica, specialmente quando si realizza “su un terreno non economico ma etico-sociale”.

 

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Altro argomento è quello che lo Stato assicura il tempo pieno. È vero che i costi del tempo pieno che viene offerto in molte scuole statali sono inclusi nel computo dei noti 7.400 euro, ma va anche detto che tale offerta è presente in molte ottime paritarie senza raggiungere gli alti costi medi stimati per le scuole statali.

Un’altra obiezione si affaccia sulle questioni trattate: sembra che nei punteggi PISA le scuole indipendenti vadano meglio delle governative dappertutto tranne che in Italia.

 

A questo proposito bisognerebbe innanzitutto informare che nelle rilevazioni OCSE sono state inserite tra le paritarie i Centri di formazione professionale, che notoriamente raccolgono gli elementi scartati dal sistema educativo, i figli di stranieri di prima generazione, gli ultimi socialmente ed economicamente. Ma soprattutto, vale la pena riflettere sul fatto che gli alti costi della scuola statale sono comparabili non ai costi medio-bassi dei “diplomifici” ma a quelli delle migliori tra le paritarie: quelle con un progetto educativo alle spalle, che magari sono nate per iniziativa di genitori e docenti (interessante fenomeno che si sta sviluppando in diversi paesi europei), che offrono standard e strutture in grado di dare ottimi risultati anche in rapporto alle statali. Dunque i soldi pagati dal contribuente per la frequenza annuale di un alunno di scuola statale potrebbero assicurare l’accesso non a paritarie di livello mediocre ma a istituti di punta, capaci di ottime prestazioni anche in PISA.

 

Detto questo andrebbe tenuto presente che gli ingenti risparmi conseguibili attraverso un’effettiva parità della società civile in campo scolastico (su questo argomento attendiamo il prossimo lavoro della professoressa Ribolzi) potrebbero essere sistematicamente reinvestiti nelle scuole statali più carenti, a beneficio dell’intero sistema. Certo occorre un cambio di paradigma che la Fondazione Agnelli sembra abbia una certa riluttanza a compiere, anche perché si colloca ancora nell’ottica dello status quo.

Pertanto, il principale sforzo dovrebbe essere non appellarsi ad un’improbabile neutralità statistica per collocare, invece, esplicitamente il proprio punto di vista scientifico rispetto agli scenari e alle ipotesi di soluzione delle difficoltà. A nostro avviso, anche riconsiderando le preclusioni ideologiche verso una società civile che non può più essere vista come un pericoloso concorrente ma, semmai, come un valido partner per risolvere insieme, in regime di utile e reale concorrenza i problemi (grossi!) sul campo.